Addio a Oliviero Malaspina: il poeta maledetto della musica che incantò anche Fabrizio De André.

Redazione

Il 6 settembre, presso l’Ospedale di Legnago, dove era ricoverato, il compositore, cantautore e scrittore Oliviero Malaspina si è spento a 63 anni.

Negli anni ha ricevuto tanti riconoscimenti in Italia e all’estero: premio Musicultura (1990, 1991, 1993); premio Lunezia (2001, con Cristiano De André); MGM Los Angeles, Migliore songwriter italiano (2005); Premio UNESCO per musica e poesia Messaggero di Pace. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato il prestigioso Premio Civilia- Cultura, Parole e Musica-alla canzone d’Autore, 15^ edizione, assegnatogli nel maggio 2025. L’artista non ha potuto presenziare, ma ha inviato una nota breve e sentita, potente nel contenuto, centrata sulla gratitudine verso tutti i suoi collaboratori.

La produzione di Malaspina si divide in progetti discografici (Caravaggio, 1995, Peer sauthern/CNI; Hai! Hai! Hai!, 1996, Peer sauthern/CNI; Benvenuti Mostri!, 2002, Target/Sony; Marinai di terra, 2005, Purple Eye/GAL; Malaspina, 2014, Hydra/Ululati) e opere letterarie (in poesia: per Edizioni Guardamagna Il ballo della fanciulla in fiamme, 1986, e Vivere davanti alla luna fredda, 1994; e in prosa: I racconti del pesce che piange e che ride, Edizioni Saecula, 2009 e La prossima volta saremo felici, Galata, 2017, Drammaturgia degli Invissuti- scritto con Giuseppe Cristaldi- (Fallone Editore, 2019). Nel 2006 il CNR pubblica Notti di Genova in Porta dei canti, con artisti del calibro di Fossati e Fabrizio De André.

Tra le collaborazioni con personaggi di spicco del panorama musicale si segnalano quella con Raphael Gualazzi e con Fabrizio e Cristiano De André. Con Faber stava lavorando ai famosi Notturni, mai completati a causa della morte del cantautore genovese.

Oliviero Malaspina era sensibile ai temi sociali e sempre dalla parte degli ultimi, come si evince da tante sue opere. La sua penna era eccezionale, il suo talento grande e la sua originalità decisamente fuori dal comune.

Ultimamente era impegnato nella realizzazione del nuovo album in studio, che sarebbe dovuto uscire con l’etichetta La Stanza Nascosta Records, con la produzione artistica di Salvatore Papotto.

Per una testimonianza più approfondita su questo un artista presente spesso sul nostro blog, rimandiamo ad ulteriori prossimi articoli.

Oliviero Malaspina

Annamé, la madre dei pozzi. L’ultimo romanzo di Giuseppe Cristaldi

Redazione

Amiche e amici, l’estate alterna grande caldo e refrigerio altrimenti detto maltempo. Resta però la stagione della lettura, grazie alle vacanze o alle agognate ferie dei più piccoli e di noi adulti. Sotto l’ombrellone abbiamo letto per voi  l’ultimo romanzo di un autore del Salento che vive nella meravigliosa Sardegna, di cui abbiamo in passato pubblicato le recensioni di altri libri.

Buona lettura e buona estate a tutti!

Questo romanzo, pubblicato dalla Casa Editrice Besa, ci colpisce già dal titolo: Annamé. Scopriamo subito che la desinenza è legata ad una espressione salentina che indica il togliersi di mezzo in fretta.

Anna nasce quasi di nascosto. Il suo stesso concepimento è un mistero per parte di padre, mistero che sarà presto svelato.

Per buona parte della sua vita la ragazza deve correre, quasi scappare, da sé stessa, dalla famiglia di origine, dal marito violento, sposato quasi per un atto di ribellione al patriarcato meridionale, negli anni Settanta, in cui il femminismo raggiungeva tutta la penisola e ispirava idee e lotte.

Anna diventerà madre e i pozzi saranno una costante della sua vita, anche di madre e donna coraggiosa.

Giuseppe Cristaldi scrive in modo poetico e talvolta gergale per contestualizzare la storia, che si fa sempre più interessante e in certe pagine toccante.

Consigliato per le donne e per gli uomini: abbiamo tutti ancora tanto da imparare sul rispetto reciproco e sull’amore.

La copertina del libro

Il dolore crea l’inverno di Matteo Porru: recensione.

A cura di  Serena Soci

Edito da Garzanti, l’ultimo romanzo dello scrittore sardo Matteo Porru, editorialista e opinionista televisivo, spesso presente nelle trasmissioni di Giovanni Floris, racconta una storia ambientata in un paesino sperduto della grande Unione Sovietica.

C’è ancora Stalin al potere, quando accadono gli avvenimenti che il protagonista, Elia Legasov, cerca di dimenticare.

Il manto spesso di neve che ricopre il suolo per buona parte dell’anno, tende a seppellire ogni cosa,  sebbene il destino di spazzaneve di Elia lo porti inesorabilmente a far riemergere alla coscienza e alla luce ogni ricordo.

I Legasov hanno infatti questa caratteristica: sono condannati a ricordare, a differenza di chi riesce a vivere la vita.

La storia, ben scritta, diventa più interessante nella seconda parte, dopo un inizio lento e misterioso.

Il quarto romanzo del giovane scrittore parla di solitudini, violenze sommerse e inattesi risvolti affettivi.

La copertina del libro

Furore di J. Steinbeck: recensione

A cura di Zar@

Mentre l’intelligenza Artificiale diventa il tema del momento, tra speranze e ragionevoli timori, decido di leggere Furore di Steinbeck, un classico della letteratura americana.

L’autore nel 1962 vinse il Premio Nobel per la letteratura per la sua scrittura realistica e immaginativa, dalla grande sensibilità e dalla percezione sociale acuta.

Questo bel romanzo, da leggere per capire il passato, ma soprattutto il presente e il futuro, racconta dell’America rurale che conosce il progresso delle macchine agricole, della grande proprietà capitalista che scaccia i braccianti dalle terre che lavoravano e dalle case che abitavano da una vita, finite in mano alle banche, che li sostituiscono con i trattori.

La macchina e il profitto di pochi costringono la famiglia Joad, insieme a migliaia di altre, a una lunga marcia, lungo la la Route 66, verso la California dei frutteti e del cotone, che prometteva lavoro e paghe dignitose. I volantini distribuiti ai braccianti parlavano chiaro: la perdita della terra e il lungo viaggio sarebbero stati compensati da una vita migliore al caldo sole della California.

Il viaggio della speranza si svolge tra mille peripezie e disagi, dipingendo il profilo di una famiglia unita, nel bene e nel male, dopo aver ritrovato Tom, il figlio maggiore finito in carcere e ora libero sulla parola. La figura di Tom e quella della madre rappresentano i personaggi più forti e interessanti dell’opera, sebbene ognuno dei membri della famiglia Joad lasci un segno nel lettore, persino la fragile Rose of Sharon, apparentemente secondaria.

Fame e difficoltà accompagnano il viaggio verso un lavoro che diventa sempre più dubbio, nelle voci e nei racconti delle persone incontrate lungo il cammino. La promessa californiana si rivela in realtà un ingannano, perpetrato dai capitalisti per poter sfruttare il lavoro dei braccianti, mentre il trattamento disumano si traduce in miseria, morte e rabbia.

Furore racconta dei “rossi”,  vale a dire i pochi che cercano di organizzarsi in un sindacato per sottrarsi alla condizione disumana di lavoro e di vita di troppi, perseguitati dai padroni dei campi e dagli sceriffi che li spalleggiano e aiutano nell’impedire pgni forma organizzata di lotta. Racconta la solidarietà del povero, capace di condividere il niente e di trasformare la morte in linfa vitale. Racconta dell’unione che fa la forza, ma è difficile da ottenere, di una rabbia antica e genuina che non sa tradursi in cambiamento.

L’uomo non è il suo lavoro, ma quando quest’ultimo diventa superfluo, perde ogni dignità e diventa asservito al progresso che non è altro che il vantaggio di pochi e la paura di tanti che devono chinare la testa e adeguarsi. Finché la fame e la privazione di dignità non si trasforma in furore.

Poetico, commovente, forte e denso di spunti di riflessione. Un classico da leggere.

La copertina del libro

Guerra o pace?

A cura di Simonetta Sansoni

Quanti sono gli scenari di guerra aperti nel mondo? I numeri dicono che sono troppi.

Fuoco e fiamme, morte e devastazione, minacce e tentativi maldestri di mediazione sono diventati pane quotidiano per un mondo che sembra essersi arreso alla guerra.

Gli appelli per la pace giungono dalle solite voci isolate, come quella del Papa e di chi manifesta contro le guerre e i massacri in corso, lancia petizioni, scrive articoli e promuove  flash mob, sventola bandiere e appende lenzuola bianche. Sono voci inascoltate e senza forza, sebbene rappresentino la maggioranza degli esseri umani: un vero paradosso.

Volontà di potenza e interessi prevalgono sull’aspirazione della stragrande maggioranza delle persone, sul puro e semplice istinto di sopravvivenza dei più. Le guerre iniziano, proseguono, si fermano e ricominciano come se niente fosse. 

Il perché se lo sono chiesti in tanti, ma la risposta siamo noi. Noi che siamo sempre in guerra gli uni contro gli altri, nel lavoro, nell’accesso a un concerto o a una visita medica, nella vita di coppia, nel rappprto con i nostri figli e genitori e in quello non meno tormentato con noi stessi.

Siamo noi che non diciamo NO alla guerra nel modo giusto, con la necessaria costanza e veemenza. Siamo noi che siamo indifferenti alla sofferenza altrui, noi che disprezziamo il prossimo anziché amarlo, noi che siamo solidali solo per appartenenza politica o per mestiere, da veri professionisti del sociale, pedine ipocrite che non scoraggiano i cosiddetti grandi, i potenti, dal decidere sulla nostra pelle dell’ennesima guerra.

Abbiamo bisogno di un capobranco e di bandiere per scendere in piazza e dire che non vigliamo né uccidere né morire. Non siamo in grado di rinunciare al benessere che nasce anche dalla produzione e dalla vendita delle armi. Non disprezziamo la scienza che arma il potere, la chiamiamo progresso come la scienza che salva vite umane, come se non ci fosse un’etica che va rispettata in qualunque ambito dell’umano sapere e vivere.

Noi esseri umani siamo vittime e complici di ogni guerra e ne siamo la radice.

Eppure un anelito di pace è in ognuno di noi. Un flebile soffio di conciliazione o pacifica coesistenza. Da millenni attendiamo che si faccia vento, tempesta, bufera, uragano.

A guardarsi intorno non è ancora giunto il momento, decisamente.

Al cantautore e poeta Oliviero Malaspina il prestigioso Premio Civilia 2025

A cura di Pasqualina Traccis

La locandina dell’evento

Il prestigioso Premio Civilia– Cultura, Parole e Musica- alla canzone d’Autore, 15^ edizione, è stato assegnato al cantautore, poeta e scrittore Oliviero Malaspina.

La premiazione è avvenuta presso il teatro comunale di Nardò (Lecce) il 24 maggio 2025. L’artista pavese noto, tra le altre cose,  per essere stato l’ultimo coautore di Fabrizio De André, nella stesura degli incompiuti Notturni, non ha potuto presenziare alla cerimonia di premiazione per motivi indifferibili. 

Il suo ringraziamento è arrivato con una nota scritta breve ma  significativa, con la quale l’artista ha sottolineato il piacere e persino il dovere della condivisione dell’ennesimo riconoscimento con quanti hanno lavorato negli anni insieme al lui.

Sono quelle cose che spesso si dicono senza troppa enfasi e talvolta in maniera frettolosa,  a chiusura di discorsi compiaciuti, fortemente incentrati sulla propria persona.

Oliviero Malaspina, invece, ne fa il succo e il senso del comunicato di ringraziamento rivolto alla commissione artistica e organizzativa, nella consapevolezza che nessun artista lavora e dunque merita da solo.

Così, mi vengono in mente tanti premi e riconoscimenti tributati ad artisti di ogni risma e livello. Il loro grazie ricolmo di ingratitudine per tutte quelle persone senza le quali non avrebbero né vinto né meritato alcunché. Quasi che l’ammettere che la musica sia un lavoro di gruppo, anziché come garanzia  di cura e di ricerca della qualità artistica, possa essere letto come il non essere abbastanza bravi per fare tutto da soli. 

Quanti citano gli autori dei testi e delle musiche delle canzoni che cantano, durante i concerti? Quanti li ricordano nelle interviste o in occasione di un premio? 

La riflessione devia dal tema dell’articolo, sebbene a mio avviso non troppo. 

La  canzone d’autore è un patrimonio da preservare da una morte che molti danno per certa, nonostante qualche sussulto di speranza legato agli ultimi sviluppi della musica visibile, quella che viene distribuita e pubblicizzata a dovere, avendo di conseguenza  la possibilità di essere  apprezzata anche nel 2025.

Anche l’eterna ed eterea poesia non vive un momento d’oro sul piano editoriale, per ragioni affini di mercato e di involuzione socio-culturale.

Entrambe, rappresentano un baluardo di umanesimo, in una società che ama definirsi progredita perché interpreta il cambiamento come vita, anziché il contrario.

In un mondo più calcolatore che razionale, c’è un gran bisogno di bellezza, come rimedio che unisce sensibile e sovrasensibile, rimandando al senso. Perché le mode passano, come pure i generi letterari e musicali, ma gli uomini restano. 

E alcuni sono ancora capaci di emozionare, stupire e raccontare in versi e musica.

Le canzoni di Oliviero Malaspina sono tra quelle che mi hanno allevata, a carezze e cazzotti, come fa la vita.

Le sue poesie mi hanno commossa, talvolta sbalordita, sovente scossa, in qualche caso perdonata. 

Gli devo molte lacrime e più di un sorriso, come essere umano intrappolato nella rete del proprio tempo, alla stregua di un pesce che piange e che ride, per dirla con il titolo di uno dei miei libri preferiti di Malaspina.

La poesia e la canzone d’autore vanno custodite e celebrate perché sono un fatto d’umanità, puro e semplice. Come il ringraziamento condiviso di Oliviero Malaspina per questo ulteriore, meritatissimo, premio. 

Per saperne di più su Oliviero Malaspina:

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Oliviero_Malaspina

Spazio classici della poesia: Minerva Jones, E. L. Masters

A cura di Sonia Alloi

A voi la poesia numero 21, dalla suggestiva e geniale Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

La poesia è dedicata ad una poetessa e crediamo che vada fruita e goduta nella lingua originale.

Buona lettura!

Poesia n°21

I am Minerva, the village poetess,

Hooted at, jeered at by the Yahoos of the street

For my heavy body, cock-eye, and rolling walk,

And all the more when “Butch” Weldy

Captured me after a brutal hunt.              

Spazio classici della poesia: Cesare Pavese

A cura di A. Bernard

Stasera ho bisogno di poesia e Cesare Pavese è stato un poeta meraviglioso. Condivido con voi una delle mie preferite che mi dà sempre una forte emozione.

Viva i poeti!

Hai viso di pietra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l’alba è silenzio.

E sei come le voci
della terra &endash; l’urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo &endash; le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.

Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov’è entrato una volta
ch’era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come il cortile antico
dove s’apriva l’alba.

5 novembre 1945

STI DAZZI!

A cura di Zar@

Amiche e amici, non si parla d’altro, per pvvie ragioni. Gli USA abbaiano e mordono, la Cina non sembra particolarmente impressionata, l’UE si piega e noi ci chiediamo che impatto avrà tutti questo sulle nostre vite.

Perché, non so se ci avete fatto caso, questa gente che in teoria dovrebbe rappresentarci gioca con le nostre vite.

Se rappresentasse me, di sicuro non parlerebbe di riarmo e di guerra. A volte si ha la sensazione che rappresentino chiunque tranne noi comuni mortali che vorremmo vivere in pace e immaginare un futuro di  speranza per i nostri figli.

Loro decidono e sono “dazzi nostri”.

Di fronte a tutto questo, noi continuiamo a proporre le nostre pillole di filosofia e gli articoli letterari o musicali, perché siamo convinti che il solo antidoto alla guerra, commerciale o militare, sia la cultura e la civiltà. Le persone colte e civili non possono che essere pacifiste.

A voi la pillola filosofica di stasera, nella speranza che ci si abitui al buon senso, al dialogo, alla pace:

“Noi siamo quello che facciamo ripetutamente. Perciò l’eccellenza non è un’azione ma un’abitudine”. 

               Aristotele