Ecco è arrivato anche il primo ponte dopo le vacanze estive. Occasione ghiotta per staccare un po’ la spina.
In giro macchine e persone, calma di festa il primo e frenesia da shopping il due. Mi lascio coinvolgere anch’io. Me ne vado per strade e negozi, con la calma dei passi di chi non ha, per una volta, i minuti contati. Vedo persone altrettanto rilassate, sorridenti, famiglie con bambini, anziani sornioni.
I fiori nelle loro mani, mi riportano col pensiero a chi non c’è più. Immediatamente la calma si fa riflessione e le vetrine diventano meno interessanti. Vivo l’attimo dell’oggi pensando al domani in cui non sarò più. Chissà se qualcuno mi rivolgerà un pensiero. Non ho marito né figli e genitori anziani. Un solo fratello che non vedo da anni.
Qualcuno si ricorderà di me? Anche solo per un attimo, in questa giornata in cui è d’obbligo ricordarsi dei propri cari defunti. Temo di no, non è un tarlo da poco la solitudine.
Cerco di non pensarci, di tornare a quel paio di stivali. Ma le scarpe non non pensano, non ricordano, non scaldano il cuore. Scaldano a malapena i piedi.
La verità è che non possiamo riempire di cose i nostri vuoti di affettività. Non possiamo riempirli di lavoro o di vacanza, di shopping o di concomitanza nel percorrere strade e negozi.
Improvvisamente mi manca il mio ufficio, il computer e l’occhio destro arrossato. Il capo e le sue bizzarrie. La collega logorroica.
E mi mancano la cugina Claudia e la zia Serafina. Da quanto tempo non le sento!
Il contatto umano è la nostra vera spina. Quella che ci alimenta di vita sensata e piena.
Il resto è noia e superficie. Attimo transeunte. Un passare leggeri sulla terra. Un presente senza domani.
Eikasia oggi vi propone la recensione di un libro freschissimo di pubblicazione. Gli autori sono noti al nostro blog, che in passato ha già ospitato altri due libri: La prossima volta saremo felicidi Oliviero Malaspina e Nel nome di ieri di Giuseppe Cristaldi. I due, nel 2014, hanno collaborato alla realizzazione dell’album Malaspina. Entrambi inoltre sono stati legati al nome De Andrè, il primo come collaboratore di Fabrizio e del figlio Cristiano, e il secondo come coautore dell’autobiografia pubblicata dallo stesso Cristiano.
Il primo istinto è stato recensirlo, al fine di condividere con voi questa non comune esperienza di lettura.
Se mi domandassero di che cosa parla, risponderei d’amore. E del suo opposto: la morte.Parla di un dolore “perpetuo e inestinguibile”.Come l’amore. Come la morte. Amore che non muore, ma si alimenta di morte e si fa sempre più grande, pagina dopo pagina, sempre più devastante e salvifico, “preghiera senza ritegno” e “gesto politico di estrema civiltà”.
Spesso si dice di questo o quel libro che “rompe gli schemi”.
Tuttavia quelli che lo fanno davvero sono una rarità. Anche perché la “rottura degli schemi” è diventata un nuovo, noioso e ingombrante schema, che afferma piuttosto che negare l’ordine, liquido e consumistico, della società attuale.
Drammaturgia degli invissuti è invece un’opera che osa deviare dai circoli viziosi estetici e mentali di tanta letteratura uguale a se stessa, che oggi satura il mercato editoriale. Amalgamando le tinte forti della prosa con le pennellate soavi della poesia,gli autori dipingono un’opera esteticamente incompatibile con questo tempo leggero e senza qualità. Incompatibilità che è segno del suo valore artistico e di verità.
In essa si alternano e si richiamano visioni poetiche e brevi racconti, e visioni poetiche all’interno dei racconti. La dialettica di poesia e prosa trova nella prosa poetica la sua sintesi sublime e al tempo stesso il suo realismo. La sublimazione poetica, infatti, non allontana dalla realtà, ma permette al lettore di afferrarla nella sua complessità, in quanto ne protegge la contraddizione e la coscienza infelice.
Cristaldi e Malaspina sono perfettamente armonizzati nell’anticiparsi, tallonarsi, scansarsi e tenersi per mano fino all’epilogo di disperata speranza.
È questoun libro che commuove, fino alle lacrime. Come un pugno in faccia stordisce e provoca al tempo stesso una reazione di rabbia, opportuna e quasi salvifica.
La scrittura è talmente bella che vien voglia di leggerlo a voce alta, per sentire come risuonano le parole e le voci che si fanno eco a distanza. Parole che includono sempre l’uomo e danno un nome alle assenze. Voci rese “alle bocche che non hanno più forza e parole”, per citare una canzone dell’ultimo album di Oliviero Malaspina, a cui ha collaborato lo stesso Giuseppe Cristaldi.
L’opera drammatizza tematiche complesse e contestualizzate – espressione di luoghi ben precisi del sud e del nord – eppure universali. Nord e sud si contrappongono e si richiamano dialetticamente nel comune destino di un’umanità sofferente e ultima.
Quelle narrate (o cantate) sono storie in parte note, per la morbosa attenzione dei media che se ne servono per intrattenere temporaneamente un pubblico iperattivo e annoiato. Ben diverso lo sguardo del libro, di profonda e umana compartecipazione, di consapevole e coraggiosa denuncia sociale e politica in senso ampio.Uno sguardo interiore che contrasta con quello esteriore dei nostri tempi. Un guardare attraverso e oltre, per scorgere il volto e il colore di ogni cosa.
Quanti colori ha la malattia? La morte? Il bianco del PVC, il giallo isterico delle metastasi epatiche, il bianco su nero della balistica di due corpi, di due esistenze disegnate sull’asfalto. La dignità di chi lotta contro un nemico subdolo che ha il volto del pane, del lavoro, della famiglia, dell’amore, della felicità.
La morte è imparziale solo come destino degli ultimi. Non ci sono vinti del nord e vinti del sud. Tutti i vinti sono uguali nelle lacrime, nella solitudine, nella rabbia soffocata, nella rabbia urlata, nelle danze di amore e morte. Nella stessa ingiustizia che corona sia la lotta che la resa. Negli abusi di un potere cieco. Tutti invissuti (come zombie al contrario), in un destino unico di desolazione fisica e morale.
Nelle pagine scritte da Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina ci sono persone, storie, allucinazioni, voli pindarici e cocente verità.
Alcune si imprimono indelebilmente nella mente e nel cuore: le tante croci disseminate all’ombra dei petrolchimici, i viaggi della speranza pagati con il mobilio, i martiri delle lotte per una giustizia che ha il volto stravolto dell’utopia. La pioggia rossa dei militari ultimi, quelli che non contano, che si sacrificano per salvare quegli altri che contano e per “insegnare la famiglia”. Le figlie i cui corpi vengono abusati e venduti dai padri come grano, come carne. La solitudine dei vecchi che “adatta l’amore a tutto e fa famiglia il niente”. Quella che non obbedisce a se stessa per potersi proteggere. Il cantico d’amore e morte (ancora) dei drogati. I sogni manomessi. L’umiliazione della malattia che aspetta l’alba e la (di)spera. Le mogli belle senza artifici, perché il sole del sud li sputtanerebbe subito. Il loro amore semplice, concreto e inconsolabile.
Tante emozioni contrastanti eppure reciprocamente incatenate. Emozioni fortissime, un sovraccarico per i viscerorecettori. Conla consueta pioggia di bellezza che lava via tutto, anche la nausea dell’inconsistenza e dell’essere ad uso e consumo della vita e degli egoismi umani. Lo sconquasso organico di una poesia famelica, folle e misericordiosa. La grazia di una prosa lirica che è preghiera al dio degli invissuti. O maledizione.
Non è il tempo di fermarsi, balla con me, stramazziamo al suolo incrociando i piedi, incrociando le mani, rovesciando gli occhi nella contemplazione del delirio.
Il bacio della donna ragno è un libro scritto da Manuel Puig, uno degli autori più importanti della letteratura argentina contemporanea, edito da SUR.
Al costo di 16,50 euro mi sono concessa una lettura fuori dai ranghi e piacevolissima, oltre che molto emozionante.
Il libro racconta le vicende di Valentin Arregui, il giovane leader di un movimento politico dissidente, e Luis Molina, quarantenne omosessuale.
I due si incontrano in un carcere di Buenos Aires, dove sono detenuti per reati di tipo diverso.
Altrettanto diversi sono, in apparenza, i due personaggi, non solo per le tendenze sessuali, ma per l’approccio alla vita.
La trama si sviluppa con lunghi intermezzi rappresentati dai racconti di vecchi film patinati, con i quali due carcerati si intrattengono reciprocamente. Attraverso i film e i personaggi degli stessi, il tempo scorre meno lento e oppressivo e capita di immaginarsi altrove e più liberi.
La scrittura è dialogica e quasi cinematografica. L’opera presenta delle sequenze visive di vita vissuta dentro e fuori dal carcere, mentre nel confronto dialogico tra i personaggi si dipanano sentimenti complessi e inattesi, con colpi di scena degni di un film.
I due uomini, apparentemente diversi, nel tempo si scopriranno molto simili, intrappolati nella ragnatela del potere e profondamente soli.
La loro storia personale, intensa e delicata al tempo stesso, si intreccia con quella politica per un epilogo drammatico.
Pubblicato nel 1976, venne adattato per il grande schermo 9 anni dopo, con William Hurt che interpreta Molina vincendo addirittura l’Oscar.
Lo consiglio a chi cerca un romanzo emozionante e non usuale. Lascia il segno, provare per credere.
I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.
Due giorni fa una persona a me molto cara, moriva di cancro ai polmoni a 50 anni, in un letto di ospedale. L’ultima volta che ci siamo viste, lei mi ha chiesto di non aver paura delle malattie per la quali esiste una cura e io le ho promesso che le avrei insegnato a usare l’Iphone come modem.
Mi viene in mente anche che era innamorata di Fabrizio De André. Mi diceva “doveva essere un uomo impossibile, per fortuna non ha sposato me perché probabilmente lo avrei ucciso”. Era una donna schietta, caparbia e instancabile, con ritmi di lavoro e di vita folli. Sono sconvolta e addolorata. Non l’ho potuta nemmeno salutare, era irraggiungibile da mesi, e io da prima mi barcamenavo tra gli impegni e me stessa.
Nella vita si danno troppe cose per scontate. Per esempio le persone.
Le si sottintende, con i più svariati alibi. Invece non c’è niente di meno scontato delle persone. Ha scelto il cielo terso di un ottobre insolitamente estivo, per andarsene.
Pensavo che, in generale, si ha più rispetto e paura della morte che della vita. Il che può sembrare assurdo pensando alla fatica della seconda e al carattere momentaneo della prima.
Invece è normale. Come temere l’ignoto più del noto. L’indefinito e indeterminato più del determinato. Eppure dal definito non si fugge.
E mon è nell’ignoto che alberga la speranza? Nel possibile.
Il noto, nella sua contingenza non genera ansia, ma talvolta non lascia spazio alla speranza. Quel rispetto e quel timore sono dunque il contingente che vince sul possibile. La disperazione che vince sulla speranza.
Del resto come può vincere la speranza nella debolezza estrema del corpo avariato, avvizzito o malconcio che si consuma e si disgrega nella vecchiaia e nella malattia?
La sofferenza non fortifica e non salva. La sofferenza sfianca, annebbia e abbruttisce. La sofferenza annichilisce.
Si dice che accettare la sofferenza e non sperare sia libertà. Accettare di essere parte del divenire è libertà. Essere flusso è forse l’unica forma possibile di libertà e la più alta. La libertà della disperazione.
L’alternativa è la speranza e l’assenso incondizionato della fede. La fuga dal contingente nel possibile. L’arrischiarsi nell’intangibile e nell’indimostrabile (sebbene non impossibile e nemmeno improbabile).
Chi dei due può dirsi più coraggioso e forte? L’uomo che dispera o l’uomo che spera? Chi dei due può dirsi veramente libero? E che importa? Entrambi soffrono.
Di che disperiamo poi? La morte come la vita non intacca di una virgola l’essere, che continua ad essere dato che non può non essere. Nella certezza dell’essere e dell’impossibilità del suo contrario, tremiamo però al pensiero di perdere la nostra coscienza e identità. Ci angoscia la prospettiva di essere separati da noi stessi e dagli affetti più cari, disgregati nell’essere complessivo, sebbene pulsanti nel cuore di chi ci ama.
Probabilmente il senso della vita è la vita stessa. Sopravvivere. Sopravviversi. Infine morire, per ritrovarci tutti ancora nell’essere che racchiude ogni sua determinazione ogni cosa.
Se ci pensiamo, atei e credenti hanno elaborato la stessa teoria della vita e della morte a partire dalla certezza metafisica dell’impossibilità del nulla.Gli uni lo chiamano essere e gli altri dio, ma entrambi sono convinti che l’uno racchiuda il tutto e ne sia principio e fine.
Dopo la morte ci ritroveremo, non c’è altra possibilità. Avvolti e custoditi nell’uno, come in un gigantesco utero primordiale. Che speriamo o disperiamo, l’esito è grosso modo lo stesso. La cosa grave è perdersi prima.
Sono cambiati i tempi e con essi i bisogni. I bisogni indotti hanno soppiantato quelli vitali e sono diventati prioritari per gran parte delle persone. Il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso stesso ha prodotto, tra cui il bisogno di velocità. Di stimoli rapidi che si estinguono altrettanto rapidamente e che rendono perennemente insoddisfatti, alienati, schiavi. Imprigionati in un meccanismo di consumo che diventa una droga, con il bisogno di dosi continue e sempre più elevate per provare sensazioni sempre più intense. Come ricordava Bauman: se tutti corrono insieme in una direzione bisogna porsi due domande: dove vanno e da cosa scappano. Per lo più da se stessi e dal fallimento dei fallimenti, vale dire la mancata costruzione di una identità propria e solida. Le identità di cui riempiono i carrelli della spesa, reali e virtuali, sono temporanee ed eterodirette, liquide, “con la data di scadenza scritta nell’etichetta”.
La manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti ha raggiunto livelli tali da agire anche su quelli istintivi con la sicurezza con la quale storicamente ha sempre avuto presa su quelli sociali e secondari. E così desideriamo gli stessi corpi e le stesse anime e ci sforziamo di assomigliarci, tutti, in una paurosa e modaiola omologazione degli stili di comportamento. Ci immaginiamo influencer e questi sono i nostri nuovi (più o meno consapevoli) carcerieri. Pensiamo per sentito dire e ciò che è nuovo ci sembra sempre migliore del vecchio: la quintessenza del consumismo.
Non che si debba necessariamente restare aggrappati a un passato di valori nei quali non ci si riconosce più. Sarebbe saggio, tuttavia, provare ad immaginare un futuro, anziché vivere un eterno presente di istanti desostanziati. Che parliamo di ambiente, di libri, di musica o di politica, il nostro dire è il dire di qualcun altro. La nostra una libertà condizionata come non mai e del tutto illusoria. Di distrazioni e di auto ed etero distruzione di ogni possibilità di erigere una coscienza critica collettiva.
Soluzione? Una sana consapevolezza e disobbedienza. A se stessi e a questo ordine sempre più pericolosamente interiore.
Eccoci. L’estate è alle spalle, sebbene ne sentiamo ancora il profumo, odore di libertà. L’autunno è una stagione che sa di malinconia e al tempo stesso di nuovi inizi. A settembre si colloca il vero capodanno, dopo il Time-out estivo.
Il lavoro, la scuola, gli esami, si riparte con più grinta e qualche rimpianto.
Alzi la mano chi è pienamente soddisfatto delle proprie vacanze, chi ha realizzato ogni piano, ogni desiderio di relax, avventura e svago. In genere si è soddisfatti a metà, come spesso accade nella vita.
Con l’autunno si ricomincia da capo, si progetta un nuovo anno di lavoro e si fantastica sulle prossime vacanze.
Personalmente ho trascorso le mie vacanze in Sardegna. Un’isola bellissima e magica. Ho visitato in particolare la costa orientale e me ne sono innamorata.
Il paradiso c’è ed è ad un passo da noi. Mare da sogno, montagne suggestive, ottimo cibo, musica, cultura e divertimento. Ma soprattutto gente speciale che non vedo l’ora di ritrovare il prossimo anno. Avrei voluto prolungare il soggiorno, ma il dovere chiama ed eccomi qui, di nuovo in vostra compagnia.
La poesia di oggi è stata scritta da un poeta greco, Costantino Kavafis, nel 1911.
La fine delle vacanze si avvicina per tanti studenti, di tutte le età.
Il ritorno a scuola è sempre traumatico, ma al tempo stesso impreziosito da emozioni positive, quali il ritrovare i compagni di viaggio degli anni più belli e l’andare in contro alle innumerevoli occasioni di crescita e di arricchimento, culturale e umano, che solo la scuola offre.
A questi studenti dedichiamo la composizione poetica odierna, metafora della loro condizione privilegiata di giovani viaggiatori negli oceani sconfinati della conoscenza.
Il poeta avverte che non bisogna preoccuparsi troppo della mete, non bisogna mettersi fretta o avere ansia di raggiungerla, perché ciò che davvero conta, ciò che più di tutto ci arricchisce e ci completa è il viaggio. Il lungo viaggio della vita.
Buon viaggio dunque, agli studenti di tutte le età e a quanti non hanno mai smesso di imparare.
Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, né nell’irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga. Che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti – finalmente e con che gioia – toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche profumi penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti
Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
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