A cura di Zar@
Mi riprendo l’attimo, la vita presente, superando il torpore del ricordo della vita. Esco in strada, calma e vuota, per ripercorrere i passi smarriti di un cammino di libertà. Il confine e la fine di tutto.
Cosa sono oggi? Non ciò che ero ieri o avantieri. Certo qualcosa di nuovo o se non altro di diverso.
Un soffio di vento mi riporta il respiro di una mattinata invernale, di quelle ingannevoli, col sole abbagliante e l’aria frizzante che penetra ogni fessura del cappotto procurando la ferita di un brivido tagliente.
I pensieri, annebbiati dal contrasto metereologico, si dileguano e lasciano spazio a un’emozione familiare quanto indesiderata. L’ansia. Non un’ansia qualunque, la mia.
L’ansia mi accompagna, da sempre, mi tiene in vita, mi impedisce di disperdermi in un susseguirsi di pensieri e stati d’animo senza continuità. Matrice della mia autocoscienza, essa lega ogni battito, congiunge ogni sospiro, sogno o elucubrazione come un’attribuzione di senso. Il mio senso.
Àncora agli anni presenti passati e futuri la fenomenologia cangiante della mia anima.
Non ricordo fase, giorno o istante della mia esistenza senza l’ansia, nel profondo o in superficie. Come sfondo, sottofondo o colonna sonora spuria di un’essenza.
Le macchine vanno. Le macchine vengono.
Il cielo si scurisce preparando una nuova entrata in scena del sole, prima timida poi imponente e spettacolare.
Un uomo e una donna mi passano accanto e procedono oltre. Lei si aggiusta il cappotto e commenta con un cenno del capo il lungo monologo del compagno, ad arginare con distacco e noncuranza un fiume in piena. Quest’ultimo stringe nervosamente il cellulare con una mano e con l’altra il braccio destro della donna. Sarà una questione di lavoro. Ha la tipica espressione e mimica di chi si agita per una questione di lavoro o un dissidio col capo. “Non so quanto resisterò ancora prima di dirgli chiaramente ciò che penso di lui…”
Non ho perduto l’abitudine di osservare le persone e immaginarne le storie.
È il mio modo di stare al mondo e tenermi compagnia.
L’unico modo in cui gli altri mi sono sopportabili.