A cura di Zar@
La città rende disponibile ciò di cui hai bisogno ogni tanto. Le località più piccole ciò che ti serve ogni giorno e di cui non puoi fare a meno.
Il via vai della gente che si distribuisce tra le auto, gli autobus e i marciapiedi è frenetico.
Tra edonismo e pragmatismo americano, di fronte a me vedo una massa indistinta. Il caos primordiale, il migma originario, indeterminato nella sostanza, omologato nella forma.
Lo sguardo sulla città è rumore di traffico e mezze parole colte da labbra di ogni età, odori neutri o sgradevoli, vetrine, parcheggi e umanità varia. Varia ma, come direbbe Pasolini, indistinguibile. L’ambulante che baratta il parcheggio con l’acquisto di calze e fazzoletti, il barbone che chiede l’elemosina davanti al supermarket, gli stranieri che si guardano intorno e puntano una chiesa dopo aver consultato una guida turistica, le coppie, i single, gli adolescenti in gruppo, i bambini che giocano a strattonarsi, i gazebo che raccolgono firme e offerte per le cause più varie, la stravaganza banale di chi ostenta una diversità manieristica, le promesse di piaceri e divertimento notturno, l’ambulanza che sfreccia e, come sottofondo, una babele linguistica.
Essere e dover essere coincidono. Ogni cosa è al suo posto. Tutto emerge e nulla spicca. Come un fiume in piena, ciò che prevale è il flusso, non ciò che trascina. La massa enorme e uniforme che scorre.
Ho perso interesse. Per il mondo, per le persone, per l’animo umano. Ogni tanto scorgo qualche anziano, gli unici distinti e distinguibili qui. Ne distingui il linguaggio, verbale e corporeo, il modo di pensare, di agire, di vestirsi e di essere. Sono rimasti gli unici a destare il mio interesse. Forse perché sono gli unici che riconosco, in mezzo alla massa indifferenziata.
Se ne vanno gli ultimi riconoscibili e in città sembrano ancora di meno.
Li vedi camminare per strada, avanzando come chi non si stupisce perché niente più desta stupore. Niente sorprende.
Oggi è così. Nulla sorprende e tutto indigna, di un’ indignazione di maniera che mi rende insopportabile ogni conversazione.
Va scomparendo la semiologia di un popolo intesa come codice, comportamento, linguaggio, cultura. Come Spirito. Al suo posto, il prodotto della globalizzazione modernistica e totalitaria del consumo. Un’umanità che non è più natura né spirito. Smaniosa di consumare, di esibire, di apparire. Ansiosa di adattarsi, di uniformarsi, di perdersi in questa tirannide leggera e giocosa, piena di niente e vuota di tutto. Adagiata nel benessere e rammollita dalle comodità senza le quali non è nulla.
La verità è che oggi o consumi o sei fuori dal consumo e dal mondo che è improntato sul consumo, ma sempre con un piede dentro. Non ci sono alternative. Non ci sono più. Nessuno si difende più perché non sa di doverlo fare.
Guardi le persone. Le guardi e sono tutte uguali. Le ascolti e hai la stessa impressione. Categorizzabili e nello stesso tempo indistinguibili. Sono “gay”, “etero”, “trans”, “bianchi”, “neri”, “cittadini”, “stranieri”, “benestanti”, “barboni”, “prostitute”, “di destra” e “di sinistra”. Sono tutto e non ancora uomini. O non più uomini. Sono consumatori. Li accomuna il pensiero, il linguaggio, ciò a cui ambiscono, il modo di comportarsi, di essere o di arrendersi al mondo.
Li accomuna ciò che hanno o ciò che vorrebbero avere per essere. Nel loro essere per consumare o consumare per essere, sono indistinguibili. A distribuire questa massa informe nelle varie categorie è la forma.
La sostanza è omologazione e indifferenziazione.
Il barbone e l’ambulante sono vestiti allo stesso modo dell’adolescente, dell’operaio e dell’impiegato. Marchio più marchio meno. Se li senti parlare sono entrambi un concentrato di luoghi comuni, egoismi, egocentrismo e disinteresse per l’altro da sé. Sono una logorrea di problemi personali e disagio. Problemi e disagio che hanno un nome, una certificazione, un alibi. Hanno un ente o un’associazione che li gestisce, un prete che li assolve e la stessa mancanza di volontà. La stessa presunzione di libertà. Lo stesso rammollimento di tutto e di tutti. La stessa resa alla società dei consumi e alla massificazione delle coscienze e delle esistenze. La stessa intollerante tolleranza. La stessa appartenenza ad altro, ma non a se stessi.
Lo stesso esser dentro. Lo stesso esser fuori.
Mi ha stancato anche la retorica del diverso. L’esaltazione di questa o quella sottocategoria umana. Dov’è la diversità? Non la vedo. Non c’è. Non c’è più.
Non vedo un solo atto di ribellione nella popolazione giovane e meno giovane ma non ancora anziana. Solo abbandono o fuga. In ogni caso resa incondizionata. Il consumismo vince e nessuno resiste perché nessuno ha consapevolezza del nemico.
Mi aggrappo dunque agli ultimi distinti, gli anziani, pendo dalle loro parole di terra, di vino e sudore. Ne ascolto le storie di gnomi, fate e costellazioni. Mi perdo nelle foto ingiallite, negli sguardi genuini di fame, di rabbia e di vita. Mi abbevero delle chiuse granitiche alle frivolezze, al luogo comune, all’inconsistenza.
Ne osservo il vestiario da museo etno-antropologico. Mi incantano i loro volti rugosi, le mani sapienti e gli occhi sul mondo. Mi commuove saperli capaci di ascoltare. Il mostrare interesse di chi prova realmente interesse. La capacità di essere se stesso e nient’altro.
Li guardo cercando di carpire un segreto che non possono trasmettermi. Sono figlia di questo mondo, mi piaccia o no. Io sono massa indistinta, al pari degli altri.
Ho perso interesse e ho smesso di mostrarlo. Non me lo aspetto più. E chi lo simula non mi fa più rabbia, ma tenerezza. Provo compassione per chi pensa che possa bastarmi. Per chi si sforza di recitare una parte, pensando che sia indispensabile per ottenere da me ciò che vuole. Pensano di comprarmi, di consumarmi, perché non sono capaci di fare altro. Non sanno e non possono esser altro, se non consumatori.
Compatiscono o condannano la mia solitudine, ma non colgono la loro. Questo inganno di socialità, di emancipazione, di atomistica autorealizzazione o autoesclusione.
Hanno sentito, letto, sperimentato che così va il mondo. Seguono il passo e sgomitano per arrivare primi. Vanno, ma non arrivano mai.
Io li guardo da fuori e da lontano. E mi annoiano, profondamente.