Incontro con la solitudine: racconto in progress 4

A cura di Zar@

La città rende disponibile ciò di cui hai bisogno ogni tanto. Le località più piccole ciò che ti serve ogni giorno e di cui non puoi fare a meno.

Il via vai della gente che si distribuisce tra le auto, gli autobus e i marciapiedi è frenetico.

Tra edonismo e pragmatismo americano, di fronte a me vedo una massa indistinta. Il caos primordiale, il migma originario, indeterminato nella sostanza, omologato nella forma.

Lo sguardo sulla città è rumore di traffico e mezze parole colte da labbra di ogni età, odori neutri o sgradevoli, vetrine, parcheggi e umanità varia. Varia ma, come direbbe Pasolini, indistinguibile. L’ambulante che baratta il parcheggio con l’acquisto di calze e fazzoletti, il barbone che chiede l’elemosina davanti al supermarket, gli stranieri che si guardano intorno e puntano una chiesa dopo aver consultato una guida turistica, le coppie, i single, gli adolescenti in gruppo, i bambini che giocano a strattonarsi, i gazebo che raccolgono firme e offerte per le cause più varie, la stravaganza banale di chi ostenta una diversità manieristica, le promesse di piaceri e divertimento notturno, l’ambulanza che sfreccia e, come sottofondo, una babele linguistica.

Essere e dover essere coincidono. Ogni cosa è al suo posto. Tutto emerge e nulla spicca. Come un fiume in piena, ciò che prevale è il flusso, non ciò che trascina. La massa enorme e uniforme che scorre.

Ho perso interesse. Per il mondo, per le persone, per l’animo umano. Ogni tanto scorgo qualche anziano, gli unici distinti e distinguibili qui. Ne distingui il linguaggio, verbale e corporeo, il modo di pensare, di agire, di vestirsi e di essere. Sono rimasti gli unici a destare il mio interesse. Forse perché sono gli unici che riconosco, in mezzo alla massa indifferenziata.

Se ne vanno gli ultimi riconoscibili e in città sembrano ancora di meno.

Li vedi camminare per strada, avanzando come chi non si stupisce perché niente più desta stupore. Niente sorprende.

Oggi è così. Nulla sorprende e tutto indigna, di un’ indignazione di maniera che mi rende insopportabile ogni conversazione.

Va scomparendo la semiologia di un popolo intesa come codice, comportamento, linguaggio, cultura. Come Spirito. Al suo posto, il prodotto della globalizzazione modernistica e totalitaria del consumo. Un’umanità che non è più natura né spirito. Smaniosa di consumare, di esibire, di apparire. Ansiosa di adattarsi, di uniformarsi, di perdersi in questa tirannide leggera e giocosa, piena di niente e vuota di tutto. Adagiata nel benessere e rammollita dalle comodità senza le quali non è nulla.

La verità è che oggi o consumi o sei fuori dal consumo e dal mondo che è improntato sul consumo, ma sempre con un piede dentro. Non ci sono alternative. Non ci sono più. Nessuno si difende più perché non sa di doverlo fare.

Guardi le persone. Le guardi e sono tutte uguali. Le ascolti e hai la stessa impressione. Categorizzabili e nello stesso tempo indistinguibili. Sono “gay”, “etero”, “trans”, “bianchi”, “neri”, “cittadini”, “stranieri”, “benestanti”, “barboni”, “prostitute”, “di destra” e “di sinistra”. Sono tutto e non ancora uomini. O non più uomini. Sono consumatori. Li accomuna il pensiero, il linguaggio, ciò a cui ambiscono, il modo di comportarsi, di essere o di arrendersi al mondo.

Li accomuna ciò che hanno o ciò che vorrebbero avere per essere. Nel loro essere per consumare o consumare per essere, sono indistinguibili. A distribuire questa massa informe nelle varie categorie è la forma.

La sostanza è omologazione e indifferenziazione.

Il barbone e l’ambulante sono vestiti allo stesso modo dell’adolescente, dell’operaio e dell’impiegato. Marchio più marchio meno. Se li senti parlare sono entrambi un concentrato di luoghi comuni, egoismi, egocentrismo e disinteresse per l’altro da sé. Sono una logorrea di problemi personali e disagio. Problemi e disagio che hanno un nome, una certificazione, un alibi. Hanno un ente o un’associazione che li gestisce, un prete che li assolve e la stessa mancanza di volontà. La stessa presunzione di libertà. Lo stesso rammollimento di tutto e di tutti. La stessa resa alla società dei consumi e alla massificazione delle coscienze e delle esistenze. La stessa intollerante tolleranza. La stessa appartenenza ad altro, ma non a se stessi.

Lo stesso esser dentro. Lo stesso esser fuori.

Mi ha stancato anche la retorica del diverso. L’esaltazione di questa o quella sottocategoria umana. Dov’è la diversità? Non la vedo. Non c’è. Non c’è più.

Non vedo un solo atto di ribellione nella popolazione giovane e meno giovane ma non ancora anziana. Solo abbandono o fuga. In ogni caso resa incondizionata. Il consumismo vince e nessuno resiste perché nessuno ha consapevolezza del nemico.

Mi aggrappo dunque agli ultimi distinti, gli anziani, pendo dalle loro parole di terra, di vino e sudore. Ne ascolto le storie di gnomi, fate e costellazioni. Mi perdo nelle foto ingiallite, negli sguardi genuini di fame, di rabbia e di vita. Mi abbevero delle chiuse granitiche alle frivolezze, al luogo comune, all’inconsistenza.

Ne osservo il vestiario da museo etno-antropologico. Mi incantano i loro volti rugosi, le mani sapienti e gli occhi sul mondo. Mi commuove saperli capaci di ascoltare. Il mostrare interesse di chi prova realmente interesse. La capacità di essere se stesso e nient’altro.

Li guardo cercando di carpire un segreto che non possono trasmettermi. Sono figlia di questo mondo, mi piaccia o no. Io sono massa indistinta, al pari degli altri.

Ho perso interesse e ho smesso di mostrarlo. Non me lo aspetto più. E chi lo simula non mi fa più rabbia, ma tenerezza. Provo compassione per chi pensa che possa bastarmi. Per chi si sforza di recitare una parte, pensando che sia indispensabile per ottenere da me ciò che vuole. Pensano di comprarmi, di consumarmi, perché non sono capaci di fare altro. Non sanno e non possono esser altro, se non consumatori.

Compatiscono o condannano la mia solitudine, ma non colgono la loro. Questo inganno di socialità, di emancipazione, di atomistica autorealizzazione o autoesclusione.

Hanno sentito, letto, sperimentato che così va il mondo. Seguono il passo e sgomitano per arrivare primi. Vanno, ma non arrivano mai.

Io li guardo da fuori e da lontano. E mi annoiano, profondamente.

Incontro con la solitudine 3: racconto in progress…

A cura di Zar@

La solitudine può essere una compagna sorprendente. Pur non amandola hai la certezza della sua assoluta fedeltà. Non si può dire altrettanto delle persone, c’è poco da fare.

Io non sono stata sempre sola. Ragionandoci non può essere andata così. Mia madre era una donna piuttosto premurosa. Sempre presente. Morbosa, per certi versi.La mia inoltre era una famiglia numerosa. Esser soli in famiglia era impossibile. Ma la solitudine, si sa, è un fatto interiore. Questo credo di averlo capito presto.

Il mio esilio personale è iniziato nell’età dell’innocenza. La mia innocenza è stata la sua prima vittima.

Incontro con la solitudine: racconto in progress…

A cura di Zar@

Non so dire quando è stato il momento preciso in cui ho preso coscienza di questa mia diversità, forse non c’è stato. Forse l’ho sempre percepita, fin da bambina, negli sguardi straniti e nelle parole dette o non dette delle persone intorno. Viviamo circondati di specchi, non riconoscersi è impossibile.

Diversa, poi. Come se diversi non lo fossimo un tutti, ognuno con il proprio personalissimo assetto biologico e con il proprio vissuto.

Tuttavia c’è sempre chi è un po’ più diverso. Lo riconosci perché si isola volontariamente prima che venga isolato dagli altri. Si premunisce con la solitudine nei riguardi della solitudine.

Sì, perché c’è solitudine e solitudine. Per esempio c’è quella scelta e quella subita. Distinguerle è obiettivamente impossibile. Nondimeno ci si consola nell’illusione, nella menzogna della sua anticipazione volontaria.

Una volta sposata, la solitudine è per sempre.

Incontro con la solitudine 2: racconto in progress

A cura di Zar@

Vivo una vita che è la mia condanna. Sepolta nel mio mondo interiore come in un volontario isolamento.

Non sento il bisogno dell’altrui presenza e non la disdegno, sarebbe la mia salvezza – a dire il vero – ma non la cerco.

Io non ho alcuna pretesa di salvezza, del resto. Sarebbe già sufficiente non fare a pugni col mio tempo. Abbiate pietà di questo mio rifiuto della vita ha ragioni lontane e radici ben piantate.

Quando avevo 12 anni pensavo di essere un’adolescente come tante, con un buon quoziente intellettivo e qualche problema a stare al mondo, forse, a stringere amicizie e relazioni durature. Una di quelle anime introverse e strabordanti di fantasia e complessi esistenziali. Sofferenti per necessità e per gioco. Allegre per caso e a intervalli irregolari.

Mi son dovuta ricredere. Zara che si fa oggi? Si studia o si esce? Spegni quella musica e lascia spazio alla vita vera, quella fuori da scuola e da casa. Ester, mi senti?

La vita vera. Quella dei cortili bagnati, delle strade roventi per il sole di mezzogiorno, dei jeans a zampa di elefante e degli sguardi furtivi dei potenziali amori.

La vita delle compagnie cui non ho mai saputo appartenere. Il gruppo, per me, era un concetto astratto. Un contenuto immaginato. Un sentito dire.

Non sono mai stata adatta alla vita vera. Questo è.

Incontro con la solitudine: racconto in progress.

A cura di Zar@

Mi riprendo l’attimo, la vita presente, superando il torpore del ricordo della vita. Esco in strada, calma e vuota, per ripercorrere i passi smarriti di un cammino di libertà. Il confine e la fine di tutto.

Cosa sono oggi? Non ciò che ero ieri o avantieri. Certo qualcosa di nuovo o se non altro di diverso.

Un soffio di vento mi riporta il respiro di una mattinata invernale, di quelle ingannevoli, col sole abbagliante e l’aria frizzante che penetra ogni fessura del cappotto procurando la ferita di un brivido tagliente.

I pensieri, annebbiati dal contrasto metereologico, si dileguano e lasciano spazio a un’emozione familiare quanto indesiderata. L’ansia. Non un’ansia qualunque, la mia.

L’ansia mi accompagna, da sempre, mi tiene in vita, mi impedisce di disperdermi in un susseguirsi di pensieri e stati d’animo senza continuità. Matrice della mia autocoscienza, essa lega ogni battito, congiunge ogni sospiro, sogno o elucubrazione come un’attribuzione di senso. Il mio senso.

Àncora agli anni presenti passati e futuri la fenomenologia cangiante della mia anima.

Non ricordo fase, giorno o istante della mia esistenza senza l’ansia, nel profondo o in superficie. Come sfondo, sottofondo o colonna sonora spuria di un’essenza.

Le macchine vanno. Le macchine vengono.
Il cielo si scurisce preparando una nuova entrata in scena del sole, prima timida poi imponente e spettacolare.

Un uomo e una donna mi passano accanto e procedono oltre. Lei si aggiusta il cappotto e commenta con un cenno del capo il lungo monologo del compagno, ad arginare con distacco e noncuranza un fiume in piena. Quest’ultimo stringe nervosamente il cellulare con una mano e con l’altra il braccio destro della donna. Sarà una questione di lavoro. Ha la tipica espressione e mimica di chi si agita per una questione di lavoro o un dissidio col capo. “Non so quanto resisterò ancora prima di dirgli chiaramente ciò che penso di lui…”

Non ho perduto l’abitudine di osservare le persone e immaginarne le storie.

È il mio modo di stare al mondo e tenermi compagnia.

L’unico modo in cui gli altri mi sono sopportabili.