La scomparsa di Majorana, di Leonardo Sciascia: recensione

Redazione

Chi era Ettore Majorana? Un genio della fisica del calibro di Galilei e Newton, a detta di Enrico Fermi. La sua scomparsa, all’età di 31 anni, durante il viaggio tra Palermo e Napoli, apre diversi scenari e lascia mille interrogativi senza alcuna risposta.

La polizia, sembra sostenere Sciascia nel suo libro, letto da noi nell’edizione Gli Adelphi,  liquida il caso con l’ipotesi di allontanamento volontario e suicidio, avallata da una lettera ai familiari che comunica tempi, luogo e modi. Tuttavia, la famiglia non crede al contenuti della lettera e sollecita una pronta ricerca dello scomparso, mobilitando anche porsonaggi di spicco del regine fascista, come il grande filosofo e ministro Giovanni Gentile. Lo stesso duce avrebbe espresso il desiderio che venissero approfondite le ricerche.

Sciascia scrive un libro in cui la scrittura pulita e raffinata e la partecipazione emotiva, in altre parole la componente letteraria, si mescola alla cronaca e alla ricostruzione storica, passando per la riflessione filosofica sul presente della scienza, sul suo sviluppo e sulle sorti del mondo ad esso legate.

Majorana si è davvero tolto la vita? Troppi particolari sembrano contraddire questa tesi. C’è dietro la mano di qualcuno? Oppure lo scienziato-filosofo, intuendo le conseguenze per l’umanità di uno sviluppo della scienza sganciato dell’etica, ha deciso di abbandonare il campo prima che si concretizzasse davanti ai suoi occhi l’incubo iniziato con le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki?

Dal testo emerge il lato scientifico, intuitivo e creativo di Majorana, ma anche quello umano, schivo, riflessivo e dalla forte personalità. Il fisico teorico faceva fatica a lavorare con Fermi e i ragazzi di via Panisperna, mentre andava d’accordo con Heisemberg, del quale aveva anticipato una importante scoperta, mostrandosi riluttante alla pubblicazione della ricerca.

Competizione e distanza filosofica, facevano di Majorana un genio apprezzato, ma non integrato nel gruppo di ricerca che avrebbe dato un contributo decisivo al progetto Manhattan. Un genio indipendente e sfuggente, la cui fuga definitiva è ancora avvolta nel mistero.

Il libro merita per la scrittura appassionata e le profonde riflessioni etiche sulla scienza che risultano molto attuali.

Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, di Emanuele Severino. Recensione.

A cura di Redazione

Il saggio di Emanuele Severino rappresenta una lucida e appassionata interpretazione filosofica della poesia di Leopardi, il quale vedeva nell’alleanza tra poesia e filosofia l’ultimo rifugio della natura e la suprema elevazione dell’uomo di fronte alla nullità del tutto.

La potenza con cui si coglie e si sente la morte, nelle opere di genio, restituisce all’anima una temporanea quanto illusoria vitalità che è anche amore per l’uomo, ancora di salvezza in un contesto di distruzione che la rende impossibile. Il divenire che produce e annienta ogni essente, lascia in essere quel fiore profumato, la ginestra leopardiana, per il tempo che basta a consolare il deserto che rappresenta la verità dell’esistenza, in attesa dell’esplosione del nulla.

Il pensiero di questo sublime poeta, anticipa Nietzsche con il suo nichilismo, andando oltre il Nirvana schopenhaueriano, per segnare il tramonto della fede occidentale nelle menzogne salvatrici, da dio al paradiso promesso dalla Tecnoscienza.

Non c’è salvezza possibile, sembra ribattere Severino, ma solo angoscia e disperazione, senza la consapevolezza dell’errore logico che, da Eschilo in poi, ha alimentato la fede occidentale nel supremo divenire che inghiotte ogni essente. La salvezza non è illusione, ma verità. Una verità non colta, ma incarnata dalla potenza dell’illusione ultima della poesia.


Il grande filosofo ha la capacità di rendere affascinante e poetica l’analisi di ciò che rappresenta l’opposto dell’analisi, la parola poetica. Pertanto, consiglio questo libro di Severino a tutti, in particolare agli amanti di Leopardi e della poesia, a coloro che subiscono il fascino e la forza ammaliatrice della filosofia.

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Caino, di José Saramago: recensione.

A cura di Redazione

Saramago scrive un romanzo breve e snello, avventuroso e tendenzialmente filosofico, anche se in esso prevale l’aspetto letterario che lo rende accessibile pur nell’altezza delle questioni trattate.


Caino è l’altro. Dei due fratelli, il non prediletto da Dio, il quale ha appena creato la prima progenie umana. Il gesto esecrabile, che lo marchierà indelebilmente, vale.a dire l’uccisione del fratello Abele, lo porterà verso un lungo viaggio, sia nello spazio-tempo biblico che nella propria interiorità umana, alla scoperta dei lati più controversi del racconto dei racconti.

Si affrontano, in modo semplice, lontano dalle vette filosofiche e teologiche, talvolta semplificando un po’ troppo, i temi complessi ed eterni del bene e del male, della giustizia e dell’ingiustizia, dell’amore e dell’odio, fino al tema del rapporto tra fede e ragione (o scienza), nel contesto più ampio del rapporto tra uomo e dio.

Nell’imperscrutabiltà del disegno del dio biblico c’è l’incomunicabilità tra la divinità e la sua creatura, che faticano a capirsi reciprocamente.

Attraverso i personaggi più noti dell’Antico Testamento e le loro vicende, avvincenti quanto controverse, si dà una lettura critica delle Scritture e dell’intera religione, in un percorso che conduce Caino se non ad una giustificazione, quanto meno ad una sorta di spartizione di colpe.


Nella prospettiva dello scrittore portoghese, tra uomo e dio, creatore e creatura, in fondo, non sembra esserci questo enorme abisso.

La vendetta di Caino sarà quella dell’umanità asservita ad un dio che deve, ma non può, essere ucciso.

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Il figlio sbagliato, di Camilla Läckberg: recensione

Redazione

Il figlio sbagliato, romanzo di Camilla Läckberg, è stata una lettura agevole, intrigante e piacevole.

Questa scrittrice svedese di gialli, tra le più lette al mondo, rappresenta una scoperta interessante. Non colpisce tanto la scrittura,  lineare e semplice, diretta, ma non fuori dall’ordinario, quanto la capacità di raccontare storie che catturano il lettore, generando una certa suspense, dall’inizio alla fine.

Gli ingredienti sono quelli della società attuale, fluida e dedita alla carriera, al lusso e alla mondanità. Una società (e una letteratura) che vuole apparire tollerante, ma che pesca nel torbido e nel pruriginoso allo scopo di destare curiosità e interesse.

La vicenda, su cui indaga la coppia composta dalla scrittrice Erika Falck e Patrik Hedström, riguarda un gruppo di intellettuali libertari della Stoccolma alto-borghese che gravita intorno al Blanche, locale esclusivo per giovani talenti delle varie arti. L’approccio alla cultura della compagnia è orientato al successo e viziato da scandali di varia natura. Il denaro e le amicizie importanti la fanno da padrone e anche l’amore si sgretola, con due sole semplici e genuine eccezioni, di fronte alla paura di perdere la propria posizione sociale.

Il libro narra di due omicidi efferati, inspiegabilmente collegati tra loro, cui fa da sfondo un terzo, datato primo anni Ottanta e maturato nel complesso mondo trans. Gli unici indizi sono le foto misteriose di un affermato fotografo, ucciso prima di una mostra rivelatrice delle menzogne su cui il gruppo di amici aveva costruito la propria esistenza e il proprio successo, insieme ad una camicia sporca di sangue.

La verità lascia un piccolo barlume di speranza, che fatica a splendere dato che in questa storia nessuno può dirsi innocente.

Da leggere!

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I classici di Eikasia: Il giorno della civetta, Leonardo Sciascia. Recensione

A cura di Redazione

La mafia non esiste, tuonano politicanti e uomini d’affari. È una pura invenzione, ripetono coloro che con la mafia sono legati a doppio filo.

Il giorno della civetta, un classico di Leonardo Sciascia, riluce di un tempo attuale che si legge al passato solo nei nomi dei partiti, dei leader, nell’ assenza di quella tecnologia che oggi permea ogni azione umana.

Per il resto, in questa bellissima opera ci sono due mondi apparentemente lontani ma intersecati: il nord e il sud. Con la linea della palma, vale a dire degli investimenti malavitosi, che si sposta sempre più dall’uno all’altro, sia pure impercettibilmente.

Questo libro racconta molto più della mafia siciliana, della storia e della cultura di questa splendida isola che sa di mare, di arte e di classicità. Racconta ben altro che la questione meridionale e l’eterna partita a scacchi tra guardie e ladri, carabinieri e mafiosi, con la politica come sottofondo ideologico e asso nella manica di chi fa dell’illegalità una garanzia di potere e ricchezza.

Descrive l’intero Paese, la sua transizione dalla repubblica di Salò alla democrazia ritrovata, dalla guerra al boom economico, unita nella cultura del malaffare, che tutti pensano lontano, in un altrove quasi mitologico.

Omertà a sud e mitizzazione del fuorilegge a nord, tra le ragazze alla moda che compiangono e invidiano le donne siciliane, non sono che facce diverse della stessa medaglia. L’Italia è una e mafiosa, sembra dire Sciascia, con una scrittura limpida e alta. Lo è soprattutto ai piani alti, tra la gente che conta.

Eppure di mafia in Sicilia si muore ammazzati e a nulla valgono l’impegno e l’ingegno di chi ancora crede nella legalità.
Eppure la mafia fa di questo Paese tutto ciò che potrebbe non essere, date le sue enormi potenzialità.

Una via di mezzo tra un romanzo d’inchiesta e un poliziesco, questo libro va letto a tutti i costi, anche nel 2024, soprattutto nel 204. Parla di noi e dice ancora tantissimo.

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L’anno della morte di Riccardo Reis: recensione del romanzo di Saramago

Redazione

Le idee di Saramago sono sempre geniali, c’è poco da dire. La scrittura è potente, accessibile, come un persona alla mano che ti giunge familiare, ma al tempo stesso profonda, esistenziale, a metà strada tra il poetico e il filosofico.

L’anno della morte di Riccardo Reis è sia il titolo che il protagonista del libro, con tutte le vicende personali del personaggio, alter ego di Fernando Pessoa, e quelle storico-politiche dell’Europa del 1936. La Seconda Guerra mondiale si avvicina e in Portogallo si respirano le premesse ideologiche e fattuali dell’immane nuova catastrofe. Il culto nazionalista di Salazar e la caccia alle streghe contro i cospiratori comunisti, la conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia Fascista, le prime mosse di Hitler nello scacchiere europeo e la guerra civile spagnola, verso il regime Franchista, fanno da sfondo alla vita non vita di Riccardo Reis, alle sue avventure amorose e sessuali, ai suoi versi antichi, allo scambio di riflessioni sulla vita e sulla morte con il suo defunto creatore, il poeta Pessoa.

La vita di Riccardo Reis scorre lenta e senza un reale scopo, vagando raso terra, come lo spirito dei poeti.

Rientrato dal Brasile, non ha bisogno di un lavoro, sebbene operi come medico in sostituzione di un suo collega per un breve periodo. Vive a lungo in un Hotel dove si lega clandestinamente ad una cameriera, prima di trovare casa. Quando sfiora l’amore, accade con una donna troppo giovane, con un deficit fisico e lontana che non è intenzionata a ricambiarlo.

Più che vivere assiste alla vita, propria e altrui, per  rimettersi alla sua naturale conclusione, non appena i fatti eclatanti dell’anno in corso si compiono, ancora una volta senza il suo concorso attivo.

Unito nel destino al poeta che gli ha dato i natali, ne rappresenta l’ombra visibile. Ciò che il primo non ha saputo dargli, una vita tra la poesia e la prosa, si materializza grazie alla penna sempre suggestiva di Saramago.
Consigliato per la malinconica spontaneità che lo caratterizza e per il dialogo a distanza con il grande Fernando Pessoa.

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Se il lavoro si fa poesia: a scuola con gli scrittori Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina

A cura di Zar@

Sabato 24 febbraio 2024, gli alunni della 3A del liceo scientifico “Michelangelo Pira” di Siniscola, in Sardegna,  incontreranno Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina, autori del libro Drammaturgia degli invissuti, pubblicato nel 2019 da Fallone Editore.

Giuseppe Cristaldi è uno scrittore e drammaturgo salentino, residente in Sardegna, mentre Oliviero Malaspina è un cantautore, poeta e scrittore pavese, conisciuto anche per essere stato il coautore di Fabrizio De Andrè per i Notturni, l’ultima opera del cantautore genovese rimasta inedita. Entrambi gli autori, nel corso della loro carriera, hanno ricevuto importanti riconoscimenti e dimostrato sempre grande sensibilità per i temi sociali.


La presentazione del libro sarà l’occasione per un dibattito sul tema del lavoro dignitoso e in sicurezza per tutti, nel quadro di uno sviluppo sostenibile. Il progetto di Educazione Civica e PCTO, giunto alla sua seconda edizione, riguarda temi e problemi che sembrano non avere una soluzione, dal momento che le cronache abbondano di incidenti sul lavoro, malattie professionali, morti che sono legati non tanto all’impossibilità di azzerare il rischio, quanto all’incuria, alla superficialità e alla smania di profitto che si unicono ad una consapevolezza non piena da parte degli stessi lavoratori. Ammettiamolo: non se ne parla abbastanza. Il lavoro è una cosa che riguarda tutti in qualche modo ed è ancora un diritto per la nostra Costituzione, ma non ha lo stesso appeal di altre questioni. La voce del Papa è una delle poche che insistono sulla correlazione tra lavoro e dignità umana. E quanta coscienza abbiamo del disastro ambientale che segna indelebilmente tante aree geografiche del nostro Paese e del mondo?

Gli alunni del “Pira”, coordinati dalla prof.ssa Traccis, hanno lavorato su alcuni estratti del libro, relativi a queste tematiche.

Tuttavia, Drammaturgia degli invissuti racconta  degli ultimi e dei marginali, che vivono una vita che stride con questa definizione o che la perdono in circostanze estreme. 

In 18 sezioni, Malaspina e Cristaldi narrano storie ambientate nel nord e nel sud Italia, alternando la poesia e la prosa, un po’ come fa la vita stessa. Sofferenza e dolore si mescolano a bellezza e speranza in un nuovo e diverso epilogo.

Gli alunni saranno protagonisti di tutte le fasi dell’organizzazione dell’evento, allo scopo di promuovere competenze trasversali utili per un orientamento realmente formativo, nel quadro di una scuola che educa attraverso la Cutura.

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Baudolino-Umberto Eco: recensione

A cura di Zar@

Ansia mista a frustrazione. È lo stato d’animo con il quale ti accingi a “recensire” un gigante come Umberto Eco, senza sembrare uno di quegli “imbecilli”, a cui il web ha dato voce, di cui amava parlare questo grande filosofo, semiologo e scrittore.

Dirò una cosa semplice: romanzo storico, ambientato nel Medioevo,  nell’Italia padana dei tempi di Federico Barbarossa, per spaziare verso Costantinopoli e l’Oriente magico e misterioso, che val la pena leggere.

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.

Vale la pena essere pazienti, scorrere le tantissime pagine, lasciarsi provocare e stupire, ma al tempo stesso istruire da Eco e dal personaggio principale del libro, il furfantello, geniale e creativo quanto bugiardo, che Federico I aveva eletto a suo figlio.

C’è dentro e dietro la storia dei conflitti tra l’imperatore e i comuni italiani del nord, ma c’è anche tanta fantasia che si intreccia a mito e leggende più o meno note, come quella del Santo Graal. Una storia filtrata dalle menzogne ben congeniate di Baudolino, talmente inverosimili da essere convincenti e appassionanti, sempre con un filo di ironia a dare sapore a tutto.

Leggete dunque, pazientate e godete di un racconto corposo e avvincente, tra storia, immaginario e immaginazione. Consigliato.

Spazio filosofico: riflessioni sull’IA

Redazione

La definiscono intelligenza aumentata o artificiale, a seconda degli usi e degli sviluppi. Ne descrivono le potenzialità e le chiamano progresso, con un entusiasmo a metà strada tra l’ingenuo e l’interessato. È l’argomento del momento.

I tg mostrano robot con le sembianze di umani o animali e spiegano che in un tempo non lontano saranno molto utili nei reparti pediatrici, dove interagiranno con i bambini, agevolando la raccolta di dati clinici e psicologici, mentre allevieranno, complici le sembianze giocose, il disagio dell’ospedalizzazione. Ne parlano come se tutto questo fosse non solo auspicabile, ma la migliore delle soluzioni possibili, celebrando le nuove magnifiche sorti e progressive. L’intelligenza artificiale – dicono – cambierà il mondo e cancellerà vecchi mestieri e professioni. Panta rei. Che problema c’è?

Nelle relazioni basate sulla cura, gli esseri umani sono insuperabili. L’intelligenza emotiva e l’empatia, il calore che nasce dall’essere di carne e di sangue, millenni di evoluzione umana e di umanesimo non possono essere surclassati da qualche algoritmo statistico. Bambini o anziani affidati a macchine, non possono essere la migliore delle soluzioni possibili. Sono la materializzazione del nostro utilitarismo e dell’indifferenza verso il prossimo, da scaricare a un automa che se ne deve sobbarcare l’onere.

La progressiva informatizzazione della società, che eleva gli ingegneri a nuove divinità, onnipotenti e provvidenti, ha il volto della disumanizzazione, se persino l’aspetto  psicologico ed emotivo delle relazioni interpersonali viene affidato ad una macchina.

Volete calore? Aggiungiamo una resistenza. Un abbraccio? Si può fare. Sono le tipiche risposte degli ingegneri. La verità scomoda è che chi non ha dimestichezza con l’animo umano dovrebbe tenersi alla larga dalla dimensione più profondamente umana delle cose.

La vera intelligenza, quella umana, è imperfetta. Ha una base emozionale e se ne fa condizionare, essendo frutto di una lotta per l’equilibrio tra ragione e istinti. La dimensione logico-matematica e linguistica sono solo alcune delle facce dell’intelligenza e la complessità delle loro interrelazioni non è replicabile. 

Abbiamo impiegato secoli a convincere i medici dell’importanza dell’aspetto psicologico e umano del rapporto terapeutico con il paziente e adesso puntiamo a sostituirli con i robot!

Gli educatori e il personale sanitario tutto, che ha nella radice della parola, vale a dire nell’essere composto da persone, il suo punto di forza, sono perfettamente adatti al compito che sono chiamati a svolgere. Un compito da umani che operano con umani. 

Il risparmio e la facilità con cui si possono programmare le macchine esercitano un certo fascino su chi ambisce al controllo, ma gli scenari potenziali vanno ben oltre la fantascienza, nei loro risvolti peggiori. La cautela è d’obbligo per una creatura intelligente, anzi razionale.

Nessuno disconosce il valore, in termini di utilità, della Techne, ma come di fronte ad un novello Prometeo, il dono del fuoco, elemento potentissimo, che forgia ma può anche distruggere, deve essere accompagnato dal senso etico.

Urge più che mai la Critica. Il suo esercizio libero e incondizionato, indomito, appassionato, umano. Questa società ha bisogno di filosofia, si capisce dal fatto che pensa di poterne fare a meno. Ha bisogno delle riflessioni di Emanuele Severino sull’inversione mezzo-fine e sulla Tecno-Scienza come ultimo dio. Se la tecnica diventa fine e l’uomo si riduce a semplice mezzo, dove è il progresso

La sfida quotidiana del limite da sempre offre possibilità creative (persino artistiche) grandiose, ma è anche ciò che fin’ora ci ha impedito di estinguerci, tenendoci al riparo da una volontà di potenza connaturata all’uomo al pari della creatività.

Bisogna ritrovare il senso e il valore del limite e farne tesoro, non avere timore di dichiarare l’umanità dell’uomo come dimora inviolabile del sacro. Lo sviluppo sia progresso oppure non sia.

Il correre non garantisce l’arrivo alla meta sani e salvi. A volte bisogna avere il coraggio di rallentare, per ritrovare il tempo della riflessione, del dialogo, dell’esame delle possibilità, dell’amore di sé e dell’umanità.

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Omaggio al maestro Nivola

Il grande Gatsby, di F. S. Fitzgerald: recensione

A cura di Mauro Arca

Certo, stiamo parlando di un romanzo pubblicato da Francis Scott Fitzgerald per la prima volta il 10 aprile 1925, negli USA, ma personaggi e temi sono senza tempo e dunque anche dell’oggi. In altre parole ci esprimiamo su un classico della letteratura, uno di quei libri da leggere perché hanno riflesso e segnato un’epoca e che sanno parlare a tutti, sempre.

Il grande Gatsby è la storia di un uomo di umili origini che fa fortuna in un modo misterioso e non pulito, tra contrabbando e altri affari, dopo l’incontro con il ricco proprietario di uno yacht. Incontro e fortuna che lo portano a cercare di cancellare la propria identità per riscrivere da capo la propria vita, cambiando nome e residenza, tagliando quasi per intero i ponti con la famiglia di origine, liquidata con qualche foto e il regalo di una nuova abitazione.

Gatsby è un uomo che incarna il sogno americano, maturato negli anni venti, gli anni ruggenti che Fitzgerald racconta in modo realistico e al tempo stesso disincantato. Anni di benessere materiale e ottimismo, di gonne che si accorciano, di grandi feste e leggerezza, ma anche di speculazioni finanziarie e affari più o meno leciti, con l’Europa trasformata dopo la guerra in un gigantesco mercato per le merci e i capitali americani. Le grandi contraddizioni, tra slancio collettivo verso una libertà senza freni, suprematismo, maccartismo e proibizionismo, fanno da sfondo ad una vicenda personale narrata da un vicino di casa, presto diventato suo amico e in un certo senso la sua coscienza critica: Nick Carraway.

Quest’ultimo viene avvicinato da Gatsby, durante una delle sue tante frequentatissime feste, affinché possa organizzare un incontro con la cugina Daisy, la quale trascorre le sue vacanze con il marito Tom sulla costa settentrionale di Long Island, in una casa che si trova davanti alla villa del ricco contrabbandiere. Quest’ultimo la ama da 5 anni, dopo il primo incontro, quando le condizioni economiche modeste non gli avevano permesso di sposarla.

Il suo amore, tenace rappresenta la sola dimensione autentica e pura di un uomo che incarna i suoi tempi, materiali e frivoli, privi di scrupoli e indifferenti a tutto ciò che non sia volgare appagamento del proprio ego instabile. Tempi non tanto lontani dai nostri, a ben pensarci.
Gatsby si illude di ritrovare in Daisy lo stesso sentimento di cinque anni prima, finendo per amate per tutti e due e pagando in prima persona per l’impossibilità di far rivivere il passato.

La donna, come ogni personaggio del libro, non sa né sente il bisogno di amare e conduce un’esistenza posticcia, come il suo matrimonio, fatto di infedeltà e freddezza. Quando si macchierà di un crimine terribile, non esiterà a scaricarlo sull’unico uomo che l’abbia mai veramente amata, per continuare a vivere come se niente fosse.

Il finale tragico illumina l’infinita solitudine di Gatsby e la forza delle amicizie che nascono per caso e si rivelano più autentiche di ogni altro rapporto. Il libro è struggente, ma la scrittura è scorrevole, per cui non appesantisce il lettore, incantandolo con il fascino sfuggente del protagonista e la disamina critica della società di massa americana e più in generale umana. Da leggere!

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