Il linguaggio degli schiavi: riflettiamo sui nostri tempi con Marcuse.

A cura di Zar@

Marcuse notava che nel parlare il suo proprio linguaggio, la gente parla sempre più il linguaggio degli agenti pubblicitari (in senso ampio), in altre parole dei suoi padroni (i quali a loro volta ne hanno altri e così via). Nel descrivere la realtà politica e sociale o i propri sentimenti, nel rappresentare preferenze e istinti, non esprimono solo (o più) se stessi, ma anche (e soprattutto) ciò che gli dicono i media, e questo si confonde con quanto pensano, vedono e sentono realmente, finendo per prevalere.

Questa cosa mi fa impazzire. Nel descriverci, nell’esprimere amore, odio, disgusto, piacere e dispiacere sempre più usiamo i termini della pubblicità, delle serie tv, dei bestsellers, dei social network. Usa questo linguaggio persino chi prende le distanze da tutto ciò. I critici letterari o presunti tali, per esempio, nel recensire e consigliare libri.

Un linguaggio che esprime e rafforza quell’universo di pensiero e di comportamento definito, quel sistema di controllo che (a parole, sia chiaro) vorrebbero soverchiare. Vero è che la schiavitù conviene a molti, compreso qualche ribelle prezzolato. Ogni tanto penso: dovrei prendere nota (principalmente tramite i social) e scrivere qualcosa che parli di questo, magari in modo ironico e allegorico, perché tutto il resto, tutto ciò che nel nostro mondo occidentale non va, ne è (in vari modi) conseguenza.

In questo stesso contesto si colloca l’ostilità dei più nei confronti della metafisica e della poesia. Peggio: l’indifferenza. Peggio ancora, per dirla sempre con Marcuse: la tolleranza. Un ritagliare delle “nicchie” in cui riconoscere un certo valore a queste stramberie linguistiche e concettuali, non riconducibili al linguaggio comune in quanto sublimanti, trascendenti, vaghe, assurde, contraddittorie, sconvenienti. Gli si riconosce valore in una dimensione semantica e assiologica separata. In questo modo si protegge l’universo normale di pensiero, sentimento e comportamento da ciò che può SERIAMENTE metterlo in discussione o turbarlo.

Il filosofo è un pazzo, un malato da guarire. La sua malattia è un linguaggio (dunque un sentire, un pensare e un essere) non conforme. Il poeta è un pazzo, un malato da guarire. La sua malattia è la stessa del filosofo. La loro malattia è una reazione al mondo malato in cui viviamo e una lotta per l’indipendenza. Le loro stranezze sono più razionali e vere della loro negazione, perché sono parole e concetti che esprimono le contraddizioni e gli inganni della razionalità oggi prevalente. La loro pazzia è lucidità. Il vero manicomio è questo mondo, chiosava ancora Marcuse in L’uomo a una dimensione.

Al poeta, diceva, spesso si rimprovera di non farsi capire: bella la poesia ma criptica, un esercizio di stile interessante che non si traduce in cose e comportamenti, a differenza del linguaggio comune, sempre operativo, che ha pervaso ogni ambito del vivere sociale e persino l’approccio alla cultura. Vogliamo capire i simboli e le immagini della poesia, tanto è vero che per sponsorizzarla la traduciamo nei termini del linguaggio (pubblicitario) comune. Il poeta condivide la sua poesia, dunque in un certo senso si augura che venga compresa. Il fatto è che ciò che dice non si può dire nei termini del linguaggio prevalente, omologato e omologante. Comprendere la sua poesia presuppone proprio la confutazione e il crollo di quell’universo di discorso e di comportamento in cui la si vorrebbe tradurre e con cui se ne fa pubblicità. O fa questo o non è poesia. Un po’ come non è filosofia.

I termini filosofici, precisava, devono essere diversi da quelli ordinari, perché l’universo di discorso stabilito porta in sé e riproduce il sistema di manipolazione e controllo a cui tutti siamo soggetti. Un sistema subdolo ed efficace che ha fatto della libertà, del confort e dello svago il suo principale strumento di controllo. Poeti e filosofi stessi, a un certo punto hanno iniziato a svendersi, nel cercare di normalizzarsi, in preda a un complesso di inferiorità che qualcuno ha spacciato per “presa di coscienza” o esigenza di aderenza alla realtà. Il primo talvolta si è scagliato contro il secondo. Il filosofo è uno che vola troppo alto, dice, che parla per pochi e di niente, lasciando tutto com’è. Il poeta invece si sporca le anime e le mani, dice le cose di quaggiù per come stanno, le denuncia e si autodenuncia, le vive, le cambia, le assolve. Poeti le cui opere sono cariche di metafisica si sono scagliati contro la metafisica. I filosofi a loro volta hanno preso le distanza dalle invenzioni, dalle parole evocatrici, come se fossero passati invano un Parmenide o un Platone, con pagine di un valore letterario non inferiore a quello di un Dostoevskij. A qualcosa ci si deve pur ribellare, quando si avverte la schiavitù senza avere la forza di liberarsi. Anche il filosofo si è adeguato al pensiero scientifico-tecnico dominante e ha rinunciato sempre più alla metafisica. Si è dedicato all’analisi del linguaggio, alla scienza, alla psiche e ad aspetti della società, limitandosi a “prendere atto”, muovendosi nell’universo di pensiero e linguaggio dato, di fenomeni nei confronti dei quali non esercita alcuna “forza negatrice”. Ci si è dispersi nel particolare e auto neutralizzati, intrappolati negli schemi che da dentro è impossibile vedere.

Il poeta si è vergognato di sublimare e il filosofo si è vergognato di trascendere. Ma sublimare e trascendere sono processi essenziali per poter comprendere e soprattutto per poter negare. Dunque hanno smesso di fare entrambe le cose ed eccoci qui. Eccoci, a vendere libri di Filosofia e di Poesia come si vendono le biografie dei calciatori e delle soubrette. A venderli dopo aver venduto queste (se avanza tempo e spazio) e con le stesse tecniche, lo stesso linguaggio. Ad ammirare poeti e filosofi come se fossero creature mitologiche, che non possono turbare il nostro sonno perché non esistono. E se un lieve turbamento ci assale, passa in fretta. Si torna spediti al like per il like.

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