Quando bontà fa rima con pubblicità

A cura di Redazione

Buona non è l’azione, ma l’intenzione con cui la si compie. Kant, non ce la faccio proprio a darti torto!

Natale si avvicina e si moltiplica la bontà. Al minimo sforzo, sia chiaro. Ci occupiamo un’ora al mese di te, senza spendere troppo o lasciando che siano gli altri a spendere, magari con una bella raccolta di fondi, mentre esibiamo la nostra bontà e pubblicizziamo il nostro lavoro, fotografandolo, mandandolo in diretta su Facebook o Instagram, annunciandolo e celebrandolo nei più svariati modi. Fateci caso, le iniziative sono sempre legate al lavoro dei partecipanti, quasi non sapessero donarsi e donare altrimenti.

Queste iniziative forse sono utili, ma è chiaro che la ragione principale per cui vengono portate avanti non è quella ostentata. Sono dunque anche buone, oltre che utili?

Se lo chiedeva anche Immanuel Kant, dando al quesito una risposta inequivocabilmente negativa.

In una società in cui nessuno fa nulla per nulla non sono le azioni utili che mancano, ma le azioni buone. Quelle dettate dal “devi”, semplicemente perché “puoi”. Senza secondi fini, più o meno impliciti. Non si specula sulla sofferenza, nemmeno allo scopo di alleviarla.

Sarà la provenienza regionale, ma ho sempre presente l’insegnamento dei nostri avi: il silenzio rispettoso del gesto autentico.

Se possiamo aiutare qualcuno, facciamolo. Dobbiamo farlo. Ma non proclamiamolo, non fotografiamolo, non celebriamolo per celebrare noi stessi e pubblicizzare il nostro lavoro, qualunque esso sia.

L’amore in diretta è ancora amore? Anche la notizia che qualcuno ha bisogno si può comunicare con discrezione e senza speculazioni, nel caso in cui servisse un aiuto consistente.

Il silenzio è rispetto per chi riceve l’aiuto e dignità per chi lo dà. Anche il buon esempio si può dare senza clamore e lasciando fuori l’interesse personale. L’amore è anche sacrificio (vero non apparente) di sé.

A parte questo, non vi stancate mai di apparire?

Recensione: L’uomo a una dimensione, Herbert Marcuse

Redazione

Vi proponiamo la recensione di un classico della filosofia contemporanea: L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, pubblicato da Einaudi.

Sebbene si tratti di un’opera del 1964, la lucida analisi del filosofo della Scuola di Francoforte presenta aspetti di straordinaria attualità.

Marcuse descrive la “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà” che “prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico”.  La società  nella quale viviamo è in gran parte questa, caratterizzata com’è dal dominio tecnico dell’uomo sulla natura e dal dominio della tecnica sull’uomo. Una società apparentemente razionale e tesa al progresso, in cui diminuisce il peso del lavoro per l’uomo  e si va incontro ad un benessere collettivo e a una libertà sempre maggiori.

In realtà si tratta di una razionalità apparente e funzionale agli interessi costituiti, mentre il confort del benessere e l’apparente libertà individuale impediscono di cogliere le contraddizioni feroci che ancora caratterizzano la nostra società. L’apparato tecnico di dominio e i media manipolano i nostri bisogni, spacciando per  interessi generali quelli che sono gli interessi particolari di alcuni.

Per farlo utilizzano un linguaggio anti dialettico che agisce sull’inconscio e sottrae i messaggi veicolati alla riflessione critica. Incatenati ad una realtà apparentemente razionale e giusta, agiamo come schiavi inconsapevoli in funzione di bisogni e interessi non nostri. Siamo uomini a una dimensione, che aderiscono spontaneamente a comandi suggestivi, quali quelli espressi dalle proposizioni pubblicitarie.

Il libro analizza anche il contesto storico di paura della guerra e tensione continua, tipico dell’età bipolare e sprona al recupero della coscienza autentica della realtà superando l’illusione della “coscienza felice”, alla negazione di questa società con il suo carattere repressivo e tendenzialmente  totalitario.

Si tratta di un testo complesso, ma scorrevole e senza dubbio interessante,  persino accattivante nella prospettiva che palesa. Una lettura immancabile per gli amanti della filosofia, ma anche per chi vuole comprendere un po’ meglio la realtà nella quale viviamo.


Ponti…via!

A cura di Zar@

Ecco è arrivato anche il primo ponte dopo le vacanze estive. Occasione ghiotta per staccare un po’ la spina.

In giro macchine e persone, calma di festa il primo e frenesia da shopping il due. Mi lascio coinvolgere anch’io. Me ne vado per strade e negozi, con la calma dei passi di chi non ha, per una volta, i minuti contati. Vedo persone altrettanto rilassate, sorridenti, famiglie con bambini, anziani sornioni.

I fiori nelle loro mani, mi riportano col pensiero a chi non c’è più. Immediatamente la calma si fa riflessione e le vetrine diventano meno interessanti. Vivo l’attimo dell’oggi pensando al domani in cui non sarò più. Chissà se qualcuno mi rivolgerà un pensiero. Non ho marito né figli e genitori anziani. Un solo fratello che non vedo da anni.

Qualcuno si ricorderà di me? Anche solo per un attimo, in questa giornata in cui è d’obbligo ricordarsi dei propri cari defunti. Temo di no, non è un tarlo da poco la solitudine.

Cerco di non pensarci, di tornare a quel paio di stivali. Ma le scarpe non non pensano, non ricordano, non scaldano il cuore. Scaldano a malapena i piedi.

La verità è che non possiamo riempire di cose i nostri vuoti di affettività. Non possiamo riempirli di lavoro o di vacanza, di shopping o di concomitanza nel percorrere strade e negozi.

Improvvisamente mi manca il mio ufficio, il computer e l’occhio destro arrossato. Il capo e le sue bizzarrie. La collega logorroica.

E mi mancano la cugina Claudia e la zia Serafina. Da quanto tempo non le sento!

Il contatto umano è la nostra vera spina. Quella che ci alimenta di vita sensata e piena.

Il resto è noia e superficie. Attimo transeunte. Un passare leggeri sulla terra. Un presente senza domani.

Drammaturgia degli invissuti: Recensione.

Eikasia oggi vi propone la recensione di un libro freschissimo di pubblicazione. Gli autori sono noti al nostro blog, che in passato ha già ospitato altri due libri: La prossima volta saremo felici di Oliviero Malaspina e Nel nome di ieri di Giuseppe Cristaldi.
I due, nel 2014, hanno collaborato alla realizzazione dell’album Malaspina. Entrambi inoltre sono stati legati al nome De Andrè, il primo come collaboratore di Fabrizio e del figlio Cristiano, e il secondo come coautore dell’autobiografia pubblicata dallo stesso Cristiano.

A cura di Pasqualina Traccis

Ho appena finito di leggere Drammaturgia degli invissuti, libro scritto da Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina,  pubblicato da Fallone Editore.

Il primo istinto è stato recensirlo, al fine di condividere con voi questa non comune esperienza di lettura.


Se mi domandassero di che cosa parla, risponderei d’amore. E del suo opposto: la morte. Parla di un dolore “perpetuo e inestinguibile”. Come l’amore. Come la morte.
Amore che non muore, ma si alimenta di morte e si fa sempre più grande, pagina dopo pagina, sempre più devastante e salvifico, “preghiera senza ritegno” e “gesto politico di estrema civiltà”.


Spesso si dice di questo o quel libro che “rompe gli schemi”.

Tuttavia quelli che lo fanno davvero sono una rarità. Anche perché la “rottura degli schemi” è diventata un nuovo, noioso e ingombrante schema, che afferma piuttosto che negare l’ordine, liquido e consumistico, della società attuale.

Drammaturgia degli invissuti  è invece un’opera che osa deviare dai circoli viziosi estetici e mentali di tanta letteratura uguale a se stessa, che oggi satura il mercato editoriale.
Amalgamando le tinte forti della prosa con le pennellate soavi della poesia, gli autori dipingono un’opera esteticamente incompatibile con questo tempo leggero e senza qualità.
Incompatibilità che è segno del suo valore artistico e di verità.


In essa si alternano e si richiamano visioni poetiche e brevi racconti, e visioni poetiche all’interno dei racconti.
La dialettica di poesia e prosa trova nella prosa poetica la sua sintesi sublime e al tempo stesso il suo realismo.
La sublimazione poetica, infatti, non allontana dalla realtà, ma permette al lettore di afferrarla nella sua complessità, in quanto ne protegge la contraddizione e la coscienza infelice.

Cristaldi e Malaspina sono perfettamente armonizzati nell’anticiparsi, tallonarsi, scansarsi e tenersi per mano fino all’epilogo di disperata speranza.


È questo un libro che commuove, fino alle lacrime.
Come un pugno in faccia stordisce e provoca al tempo stesso una reazione di rabbia, opportuna e quasi salvifica.


La scrittura è talmente bella che vien voglia di leggerlo a voce alta, per sentire come risuonano le parole e le voci che si fanno eco a distanza.
Parole che includono sempre l’uomo e danno un nome alle assenze. Voci rese “alle bocche che non hanno più forza e parole”, per citare una canzone dell’ultimo album di Oliviero Malaspina, a cui ha collaborato lo stesso Giuseppe Cristaldi.


L’opera drammatizza tematiche complesse e contestualizzate – espressione di luoghi ben precisi del sud e del nord – eppure universali.
Nord e sud si contrappongono e si richiamano dialetticamente nel comune destino di un’umanità sofferente e ultima.

Quelle narrate (o cantate) sono storie in parte note, per la morbosa attenzione dei media che se ne servono per intrattenere temporaneamente un pubblico iperattivo e annoiato. Ben diverso lo sguardo del libro, di profonda e umana compartecipazione, di consapevole e coraggiosa denuncia sociale e politica in senso ampio. Uno sguardo interiore che contrasta con quello esteriore dei nostri tempi. Un guardare attraverso e oltre, per scorgere il volto e il colore di ogni cosa.

Quanti colori ha la malattia? La morte? Il bianco del PVC, il giallo isterico delle metastasi epatiche, il bianco su nero della balistica di due corpi, di due esistenze disegnate sull’asfalto. La dignità di chi lotta contro un nemico subdolo che ha il volto del pane, del lavoro, della famiglia, dell’amore, della felicità.


La morte è imparziale solo come destino degli ultimi. Non ci sono vinti del nord e vinti del sud. Tutti i vinti sono uguali nelle lacrime, nella solitudine, nella rabbia soffocata, nella rabbia urlata, nelle danze di amore e morte.
Nella stessa ingiustizia che corona sia la lotta che la resa. Negli abusi di un potere cieco.
Tutti invissuti (come zombie al contrario), in un destino unico di desolazione fisica e morale.


Nelle pagine scritte da Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina ci sono persone, storie, allucinazioni, voli pindarici e cocente verità.


Alcune si imprimono indelebilmente nella mente e nel cuore: le tante croci disseminate all’ombra dei petrolchimici, i viaggi della speranza pagati con il mobilio, i martiri delle lotte per una giustizia che ha il volto stravolto dell’utopia. La pioggia rossa dei militari ultimi, quelli che non contano, che si sacrificano per salvare quegli altri che contano e per “insegnare la famiglia”. Le figlie i cui corpi vengono abusati e venduti dai padri come grano, come carne. La solitudine dei vecchi che “adatta l’amore a tutto e fa famiglia il niente”. Quella che non obbedisce a se stessa per potersi proteggere. Il cantico d’amore e morte (ancora) dei drogati. I sogni manomessi. L’umiliazione della malattia che aspetta l’alba e la (di)spera. Le mogli belle senza artifici, perché il sole del sud li sputtanerebbe subito. Il loro amore semplice, concreto e inconsolabile.


Tante emozioni contrastanti eppure reciprocamente incatenate. Emozioni fortissime, un sovraccarico per i viscerorecettori.
Con la consueta pioggia di bellezza che lava via tutto, anche la nausea dell’inconsistenza e dell’essere ad uso e consumo della vita e degli egoismi umani. Lo sconquasso organico di una poesia famelica, folle e misericordiosa.
La grazia di una prosa lirica che è preghiera al dio degli invissuti. O maledizione.

Non è il tempo di fermarsi, balla con me, stramazziamo al suolo incrociando i piedi,
incrociando le mani, rovesciando gli occhi nella contemplazione del delirio.


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Recensione: Il bacio della donna ragno.

A cura di Zar@

Il bacio della donna ragno è un libro scritto da Manuel Puig, uno degli autori più importanti della letteratura argentina contemporanea, edito da SUR.

Al costo di 16,50 euro mi sono concessa una lettura fuori dai ranghi e piacevolissima, oltre che molto emozionante.

Il libro racconta le vicende di Valentin Arregui, il giovane leader di un movimento politico dissidente, e Luis Molina, quarantenne omosessuale.

I due si incontrano in un carcere di Buenos Aires, dove sono detenuti per reati di tipo diverso.

Altrettanto diversi sono, in apparenza, i due personaggi, non solo per le tendenze sessuali, ma per l’approccio alla vita.

La trama si sviluppa con lunghi intermezzi rappresentati dai racconti di vecchi film patinati, con i quali due carcerati si intrattengono reciprocamente. Attraverso i film e i personaggi degli stessi, il tempo scorre meno lento e oppressivo e capita di immaginarsi altrove e più liberi.

La scrittura è dialogica e quasi cinematografica. L’opera presenta delle sequenze visive di vita vissuta dentro e fuori dal carcere, mentre nel confronto dialogico tra i personaggi si dipanano sentimenti complessi e inattesi, con colpi di scena degni di un film.

I due uomini, apparentemente diversi, nel tempo si scopriranno molto simili, intrappolati nella ragnatela del potere e profondamente soli.

La loro storia personale, intensa e delicata al tempo stesso, si intreccia con quella politica per un epilogo drammatico.

Pubblicato nel 1976, venne adattato per il grande schermo 9 anni dopo, con William Hurt che interpreta Molina vincendo addirittura l’Oscar.

Lo consiglio a chi cerca un romanzo emozionante e non usuale. Lascia il segno, provare per credere.

Pensieri: La disperata speranza di non perdersi

A cura di Redazione

Due giorni fa una persona a me molto cara, moriva di cancro ai polmoni a 50 anni, in un letto di ospedale. L’ultima volta che ci siamo viste, lei mi ha chiesto di non aver paura delle malattie per la quali esiste una cura e io le ho promesso che le avrei insegnato a usare l’Iphone come modem.

Mi viene in mente anche che era innamorata di Fabrizio De André. Mi diceva “doveva essere un uomo impossibile, per fortuna non ha sposato me perché probabilmente lo avrei ucciso”. Era una donna schietta, caparbia e instancabile, con ritmi di lavoro e di vita folli. Sono sconvolta e addolorata. Non l’ho potuta nemmeno salutare, era irraggiungibile da mesi, e io da prima mi barcamenavo tra gli impegni e me stessa.

Nella vita si danno troppe cose per scontate. Per esempio le persone.

Le si sottintende, con i più svariati alibi. Invece non c’è niente di meno scontato delle persone. Ha scelto il cielo terso di un ottobre insolitamente estivo, per andarsene.

Pensavo che, in generale, si ha più rispetto e paura della morte che della vita. Il che può sembrare assurdo pensando alla fatica della seconda e al carattere momentaneo della prima.

Invece è normale. Come temere l’ignoto più del noto. L’indefinito e indeterminato più del determinato. Eppure dal definito non si fugge.

E mon è nell’ignoto che alberga la speranza? Nel possibile.

Il noto, nella sua contingenza non genera ansia, ma talvolta non lascia spazio alla speranza. Quel rispetto e quel timore sono dunque il contingente che vince sul possibile. La disperazione che vince sulla speranza.

Del resto come può vincere la speranza nella debolezza estrema del corpo avariato, avvizzito o malconcio che si consuma e si disgrega nella vecchiaia e nella malattia?

La sofferenza non fortifica e non salva. La sofferenza sfianca, annebbia e abbruttisce. La sofferenza annichilisce.

Si dice che accettare la sofferenza e non sperare sia libertà. Accettare di essere parte del divenire è libertà. Essere flusso è forse l’unica forma possibile di libertà e la più alta. La libertà della disperazione.

L’alternativa è la speranza e l’assenso incondizionato della fede. La fuga dal contingente nel possibile. L’arrischiarsi nell’intangibile e nell’indimostrabile (sebbene non impossibile e nemmeno improbabile).

Chi dei due può dirsi più coraggioso e forte? L’uomo che dispera o l’uomo che spera? Chi dei due può dirsi veramente libero? E che importa? Entrambi soffrono.

Di che disperiamo poi? La morte come la vita non intacca di una virgola l’essere, che continua ad essere dato che non può non essere. Nella certezza dell’essere e dell’impossibilità del suo contrario, tremiamo però al pensiero di perdere la nostra coscienza e identità. Ci angoscia la prospettiva di essere separati da noi stessi e dagli affetti più cari, disgregati nell’essere complessivo, sebbene pulsanti nel cuore di chi ci ama.

Probabilmente il senso della vita è la vita stessa. Sopravvivere. Sopravviversi. Infine morire, per ritrovarci tutti ancora nell’essere che racchiude ogni sua determinazione ogni cosa.

Se ci pensiamo, atei e credenti hanno elaborato la stessa teoria della vita e della morte a partire dalla certezza metafisica dell’impossibilità del nulla.Gli uni lo chiamano essere e gli altri dio, ma entrambi sono convinti che l’uno racchiuda il tutto e ne sia principio e fine.

Dopo la morte ci ritroveremo, non c’è altra possibilità. Avvolti e custoditi nell’uno, come in un gigantesco utero primordiale. Che speriamo o disperiamo, l’esito è grosso modo lo stesso. La cosa grave è perdersi prima.

Consapevole disobbedienza

A cura di Zar@

Sono cambiati i tempi e con essi i bisogni. I bisogni indotti hanno soppiantato quelli vitali e sono diventati prioritari per gran parte delle persone.  Il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso stesso ha prodotto, tra cui il bisogno di velocità. Di stimoli rapidi che si estinguono altrettanto rapidamente e che rendono perennemente insoddisfatti, alienati, schiavi. Imprigionati in un meccanismo di  consumo che diventa una droga, con il bisogno di dosi continue e sempre più elevate per provare sensazioni sempre più intense. Come ricordava Bauman: se tutti corrono insieme in una direzione bisogna porsi due domande: dove vanno e da cosa scappano. Per lo più da se stessi e dal fallimento dei fallimenti, vale dire la mancata costruzione di una identità propria e solida. Le identità di cui riempiono i carrelli della spesa, reali e virtuali, sono temporanee ed eterodirette, liquide, “con la data di scadenza scritta nell’etichetta”.

La manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti ha raggiunto livelli tali da agire anche su quelli istintivi con la sicurezza con la quale storicamente ha sempre avuto presa su quelli sociali e secondari. E così desideriamo gli stessi corpi e le stesse anime e ci sforziamo di assomigliarci, tutti, in una paurosa e modaiola omologazione degli stili di comportamento. Ci immaginiamo influencer e questi sono i nostri nuovi (più o meno consapevoli) carcerieri. Pensiamo per sentito dire e ciò che è nuovo ci sembra sempre migliore del vecchio: la quintessenza del consumismo.

Non che si debba necessariamente restare aggrappati a un passato di valori nei quali non ci si riconosce più. Sarebbe saggio, tuttavia, provare ad immaginare un futuro, anziché vivere un eterno presente di istanti desostanziati. Che parliamo di ambiente, di libri, di musica o di politica, il nostro dire è il dire di qualcun altro. La nostra una libertà condizionata come non mai e del tutto illusoria. Di distrazioni e di auto ed etero distruzione di ogni possibilità di erigere una coscienza critica collettiva.

Soluzione? Una sana consapevolezza e disobbedienza. A se stessi e a questo ordine sempre più pericolosamente interiore.