A cura di Redazione
Due giorni fa una persona a me molto cara, moriva di cancro ai polmoni a 50 anni, in un letto di ospedale. L’ultima volta che ci siamo viste, lei mi ha chiesto di non aver paura delle malattie per la quali esiste una cura e io le ho promesso che le avrei insegnato a usare l’Iphone come modem.
Mi viene in mente anche che era innamorata di Fabrizio De André. Mi diceva “doveva essere un uomo impossibile, per fortuna non ha sposato me perché probabilmente lo avrei ucciso”. Era una donna schietta, caparbia e instancabile, con ritmi di lavoro e di vita folli. Sono sconvolta e addolorata. Non l’ho potuta nemmeno salutare, era irraggiungibile da mesi, e io da prima mi barcamenavo tra gli impegni e me stessa.
Nella vita si danno troppe cose per scontate. Per esempio le persone.
Le si sottintende, con i più svariati alibi. Invece non c’è niente di meno scontato delle persone. Ha scelto il cielo terso di un ottobre insolitamente estivo, per andarsene.
Pensavo che, in generale, si ha più rispetto e paura della morte che della vita. Il che può sembrare assurdo pensando alla fatica della seconda e al carattere momentaneo della prima.
Invece è normale. Come temere l’ignoto più del noto. L’indefinito e indeterminato più del determinato. Eppure dal definito non si fugge.
E mon è nell’ignoto che alberga la speranza? Nel possibile.
Il noto, nella sua contingenza non genera ansia, ma talvolta non lascia spazio alla speranza. Quel rispetto e quel timore sono dunque il contingente che vince sul possibile. La disperazione che vince sulla speranza.
Del resto come può vincere la speranza nella debolezza estrema del corpo avariato, avvizzito o malconcio che si consuma e si disgrega nella vecchiaia e nella malattia?
La sofferenza non fortifica e non salva. La sofferenza sfianca, annebbia e abbruttisce. La sofferenza annichilisce.
Si dice che accettare la sofferenza e non sperare sia libertà. Accettare di essere parte del divenire è libertà. Essere flusso è forse l’unica forma possibile di libertà e la più alta. La libertà della disperazione.
L’alternativa è la speranza e l’assenso incondizionato della fede. La fuga dal contingente nel possibile. L’arrischiarsi nell’intangibile e nell’indimostrabile (sebbene non impossibile e nemmeno improbabile).
Chi dei due può dirsi più coraggioso e forte? L’uomo che dispera o l’uomo che spera? Chi dei due può dirsi veramente libero? E che importa? Entrambi soffrono.
Di che disperiamo poi? La morte come la vita non intacca di una virgola l’essere, che continua ad essere dato che non può non essere. Nella certezza dell’essere e dell’impossibilità del suo contrario, tremiamo però al pensiero di perdere la nostra coscienza e identità. Ci angoscia la prospettiva di essere separati da noi stessi e dagli affetti più cari, disgregati nell’essere complessivo, sebbene pulsanti nel cuore di chi ci ama.
Probabilmente il senso della vita è la vita stessa. Sopravvivere. Sopravviversi. Infine morire, per ritrovarci tutti ancora nell’essere che racchiude ogni sua determinazione ogni cosa.
Se ci pensiamo, atei e credenti hanno elaborato la stessa teoria della vita e della morte a partire dalla certezza metafisica dell’impossibilità del nulla.Gli uni lo chiamano essere e gli altri dio, ma entrambi sono convinti che l’uno racchiuda il tutto e ne sia principio e fine.
Dopo la morte ci ritroveremo, non c’è altra possibilità. Avvolti e custoditi nell’uno, come in un gigantesco utero primordiale. Che speriamo o disperiamo, l’esito è grosso modo lo stesso. La cosa grave è perdersi prima.
