Buon ascolto!
I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.
Immaginiamo dunque siamo
I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.
Il bacio della donna ragno è un libro scritto da Manuel Puig, uno degli autori più importanti della letteratura argentina contemporanea, edito da SUR.
Al costo di 16,50 euro mi sono concessa una lettura fuori dai ranghi e piacevolissima, oltre che molto emozionante.
Il libro racconta le vicende di Valentin Arregui, il giovane leader di un movimento politico dissidente, e Luis Molina, quarantenne omosessuale.
I due si incontrano in un carcere di Buenos Aires, dove sono detenuti per reati di tipo diverso.
Altrettanto diversi sono, in apparenza, i due personaggi, non solo per le tendenze sessuali, ma per l’approccio alla vita.
La trama si sviluppa con lunghi intermezzi rappresentati dai racconti di vecchi film patinati, con i quali due carcerati si intrattengono reciprocamente. Attraverso i film e i personaggi degli stessi, il tempo scorre meno lento e oppressivo e capita di immaginarsi altrove e più liberi.
La scrittura è dialogica e quasi cinematografica. L’opera presenta delle sequenze visive di vita vissuta dentro e fuori dal carcere, mentre nel confronto dialogico tra i personaggi si dipanano sentimenti complessi e inattesi, con colpi di scena degni di un film.
I due uomini, apparentemente diversi, nel tempo si scopriranno molto simili, intrappolati nella ragnatela del potere e profondamente soli.
La loro storia personale, intensa e delicata al tempo stesso, si intreccia con quella politica per un epilogo drammatico.
Pubblicato nel 1976, venne adattato per il grande schermo 9 anni dopo, con William Hurt che interpreta Molina vincendo addirittura l’Oscar.
Lo consiglio a chi cerca un romanzo emozionante e non usuale. Lascia il segno, provare per credere.
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Due giorni fa una persona a me molto cara, moriva di cancro ai polmoni a 50 anni, in un letto di ospedale. L’ultima volta che ci siamo viste, lei mi ha chiesto di non aver paura delle malattie per la quali esiste una cura e io le ho promesso che le avrei insegnato a usare l’Iphone come modem.
Mi viene in mente anche che era innamorata di Fabrizio De André. Mi diceva “doveva essere un uomo impossibile, per fortuna non ha sposato me perché probabilmente lo avrei ucciso”. Era una donna schietta, caparbia e instancabile, con ritmi di lavoro e di vita folli. Sono sconvolta e addolorata. Non l’ho potuta nemmeno salutare, era irraggiungibile da mesi, e io da prima mi barcamenavo tra gli impegni e me stessa.
Nella vita si danno troppe cose per scontate. Per esempio le persone.
Le si sottintende, con i più svariati alibi. Invece non c’è niente di meno scontato delle persone. Ha scelto il cielo terso di un ottobre insolitamente estivo, per andarsene.
Pensavo che, in generale, si ha più rispetto e paura della morte che della vita. Il che può sembrare assurdo pensando alla fatica della seconda e al carattere momentaneo della prima.
Invece è normale. Come temere l’ignoto più del noto. L’indefinito e indeterminato più del determinato. Eppure dal definito non si fugge.
E mon è nell’ignoto che alberga la speranza? Nel possibile.
Il noto, nella sua contingenza non genera ansia, ma talvolta non lascia spazio alla speranza. Quel rispetto e quel timore sono dunque il contingente che vince sul possibile. La disperazione che vince sulla speranza.
Del resto come può vincere la speranza nella debolezza estrema del corpo avariato, avvizzito o malconcio che si consuma e si disgrega nella vecchiaia e nella malattia?
La sofferenza non fortifica e non salva. La sofferenza sfianca, annebbia e abbruttisce. La sofferenza annichilisce.
Si dice che accettare la sofferenza e non sperare sia libertà. Accettare di essere parte del divenire è libertà. Essere flusso è forse l’unica forma possibile di libertà e la più alta. La libertà della disperazione.
L’alternativa è la speranza e l’assenso incondizionato della fede. La fuga dal contingente nel possibile. L’arrischiarsi nell’intangibile e nell’indimostrabile (sebbene non impossibile e nemmeno improbabile).
Chi dei due può dirsi più coraggioso e forte? L’uomo che dispera o l’uomo che spera? Chi dei due può dirsi veramente libero? E che importa? Entrambi soffrono.
Di che disperiamo poi? La morte come la vita non intacca di una virgola l’essere, che continua ad essere dato che non può non essere. Nella certezza dell’essere e dell’impossibilità del suo contrario, tremiamo però al pensiero di perdere la nostra coscienza e identità. Ci angoscia la prospettiva di essere separati da noi stessi e dagli affetti più cari, disgregati nell’essere complessivo, sebbene pulsanti nel cuore di chi ci ama.
Probabilmente il senso della vita è la vita stessa. Sopravvivere. Sopravviversi. Infine morire, per ritrovarci tutti ancora nell’essere che racchiude ogni sua determinazione ogni cosa.
Se ci pensiamo, atei e credenti hanno elaborato la stessa teoria della vita e della morte a partire dalla certezza metafisica dell’impossibilità del nulla.Gli uni lo chiamano essere e gli altri dio, ma entrambi sono convinti che l’uno racchiuda il tutto e ne sia principio e fine.
Dopo la morte ci ritroveremo, non c’è altra possibilità. Avvolti e custoditi nell’uno, come in un gigantesco utero primordiale. Che speriamo o disperiamo, l’esito è grosso modo lo stesso. La cosa grave è perdersi prima.
Sono cambiati i tempi e con essi i bisogni. I bisogni indotti hanno soppiantato quelli vitali e sono diventati prioritari per gran parte delle persone. Il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso stesso ha prodotto, tra cui il bisogno di velocità. Di stimoli rapidi che si estinguono altrettanto rapidamente e che rendono perennemente insoddisfatti, alienati, schiavi. Imprigionati in un meccanismo di consumo che diventa una droga, con il bisogno di dosi continue e sempre più elevate per provare sensazioni sempre più intense. Come ricordava Bauman: se tutti corrono insieme in una direzione bisogna porsi due domande: dove vanno e da cosa scappano. Per lo più da se stessi e dal fallimento dei fallimenti, vale dire la mancata costruzione di una identità propria e solida. Le identità di cui riempiono i carrelli della spesa, reali e virtuali, sono temporanee ed eterodirette, liquide, “con la data di scadenza scritta nell’etichetta”.
La manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti ha raggiunto livelli tali da agire anche su quelli istintivi con la sicurezza con la quale storicamente ha sempre avuto presa su quelli sociali e secondari. E così desideriamo gli stessi corpi e le stesse anime e ci sforziamo di assomigliarci, tutti, in una paurosa e modaiola omologazione degli stili di comportamento. Ci immaginiamo influencer e questi sono i nostri nuovi (più o meno consapevoli) carcerieri. Pensiamo per sentito dire e ciò che è nuovo ci sembra sempre migliore del vecchio: la quintessenza del consumismo.
Non che si debba necessariamente restare aggrappati a un passato di valori nei quali non ci si riconosce più. Sarebbe saggio, tuttavia, provare ad immaginare un futuro, anziché vivere un eterno presente di istanti desostanziati. Che parliamo di ambiente, di libri, di musica o di politica, il nostro dire è il dire di qualcun altro. La nostra una libertà condizionata come non mai e del tutto illusoria. Di distrazioni e di auto ed etero distruzione di ogni possibilità di erigere una coscienza critica collettiva.
Soluzione? Una sana consapevolezza e disobbedienza. A se stessi e a questo ordine sempre più pericolosamente interiore.
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Eccoci. L’estate è alle spalle, sebbene ne sentiamo ancora il profumo, odore di libertà. L’autunno è una stagione che sa di malinconia e al tempo stesso di nuovi inizi. A settembre si colloca il vero capodanno, dopo il Time-out estivo.
Il lavoro, la scuola, gli esami, si riparte con più grinta e qualche rimpianto.
Alzi la mano chi è pienamente soddisfatto delle proprie vacanze, chi ha realizzato ogni piano, ogni desiderio di relax, avventura e svago. In genere si è soddisfatti a metà, come spesso accade nella vita.
Con l’autunno si ricomincia da capo, si progetta un nuovo anno di lavoro e si fantastica sulle prossime vacanze.
Personalmente ho trascorso le mie vacanze in Sardegna. Un’isola bellissima e magica. Ho visitato in particolare la costa orientale e me ne sono innamorata.
Il paradiso c’è ed è ad un passo da noi. Mare da sogno, montagne suggestive, ottimo cibo, musica, cultura e divertimento. Ma soprattutto gente speciale che non vedo l’ora di ritrovare il prossimo anno. Avrei voluto prolungare il soggiorno, ma il dovere chiama ed eccomi qui, di nuovo in vostra compagnia.
A breve la nuova playlist, autunnale.
Buona ripartenza, amiche e amici!
La musica è musica e il genere non conta. Ci sono solo due generi: la musica buona e quella cattiva.Buon ascolto!
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La poesia di oggi è stata scritta da un poeta greco, Costantino Kavafis, nel 1911.
La fine delle vacanze si avvicina per tanti studenti, di tutte le età.
Il ritorno a scuola è sempre traumatico, ma al tempo stesso impreziosito da emozioni positive, quali il ritrovare i compagni di viaggio degli anni più belli e l’andare in contro alle innumerevoli occasioni di crescita e di arricchimento, culturale e umano, che solo la scuola offre.
A questi studenti dedichiamo la composizione poetica odierna, metafora della loro condizione privilegiata di giovani viaggiatori negli oceani sconfinati della conoscenza.
Il poeta avverte che non bisogna preoccuparsi troppo della mete, non bisogna mettersi fretta o avere ansia di raggiungerla, perché ciò che davvero conta, ciò che più di tutto ci arricchisce e ci completa è il viaggio. Il lungo viaggio della vita.
Buon viaggio dunque, agli studenti di tutte le età e a quanti non hanno mai smesso di imparare.
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
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L’alba è quando tutto tace. Quando un colpo di spugna cancella ogni rumore di troppo, come gli innumerevoli e variegati sollazzi diurni e notturni per vacanzieri. Il silenzio che questa terra impone, inizialmente è una sensazione forte. Poi penetra dentro di te, placa i pensieri, scioglie i nodi e diventa un bisogno dell’anima. Il tuo respiro si fonde con il respiro del mare diventando preghiera. Mentre il sole insegna la rinascita giornaliera. In Sardegna.
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