Filosofia per crescere

A cura di Zar@

Il Professor Enrico Berti – grande filosofo italiano tra i maggiori esperti di Aristotele – di recente ha lanciato un appello all’inserimento della Filosofia in tutti gli indirizzi di studi della scuola secondaria di secondo grado. Lo accogliamo e rilanciamo riportando il primo frammento originale della storia della filosofia. Si tratta della citazione di un passaggio dell’opera Perì Phỳseos (Sulla natura) del filosofo greco Anassimandro.

Anassimandro di Mileto afferma che l’archè o principio di tutte le cose è l’àpeiron, vale a dire l’indeterminato, l’infinito (nel tempo e nello spazio) o illimitato.

Il frammento in questione ha un grande suo valore simbolico ed emozionale, in quanto rappresenta la prima parola scritta da un filosofo che sia giunta fino a noi.

Pensiamo che la Filosofia rappresenti una incomparabile e imprescindibile opportunità di crescita intellettuale, culturale e umana che andrebbe concessa a tutti i ragazzi in formazione, per una società migliore, più matura e consapevole. Per leggere e affrontare al meglio questo tempo incerto, con le sue storture e le sue eccezionali potenzialità. Per avere e dimostrare una marcia in più nel mondo del lavoro, qualunque sia la strada intrapresa.

Principio degli esseri è l’infinito…da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità; poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

Anassimandro

Pensieri sulla Liberazione

A cura di Zar@

La libertà non è qualcosa di scontato, la storia ci insegna questo. Il presente, pure. Allora difendiamola, con la memoria del 25 aprile, con il pensiero libero da fascismi espliciti e tangibili come quello del Ventennio e da altri più subdoli, nascosti dietro una facciata di democrazia e libertà, non meno pericolosi, quali l’omologazione consumistica e il globalismo che appiattisce e cancella la pluralità delle culture e la vera diversità, quella sostanziale.

Difendiamola con l’istruzione e con l’azione quotidiana, con il rispetto delle vittime delle guerre mondiali, di chi prese parte, quella giusta, con la Resistenza. Con il rifiuto di nostalgie stupide di tempi d’oro che tali non furono (quando c’era lui i treni non arrivavano in tempo) o di antifascismi di maniera.

Proteggiamola con la salvaguardia della nostra Costituzione e, magari, con la sua piena attuazione. A questo riguardo, il pensiero che oggi vi proponiamo è quello, profondo, di un partigiano illustre, il più amato dei presidenti di questa repubblica nata proprio dalla liberazione dal nazifascismo nel 1945. È il pensiero, sul legame inscindibile tra libertà d giustizia sociale, di Sandro Pertini.

Per me libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile non vi può essere vera libertà senza la giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà.

Notre-Dame: pensieri sullo sgomento popolare.

A cura di Zar@

L’incendio alla cattedrale di Notre Dame di Parigi è stato seguito con attenzione e commozione da tutto il mondo, cristiano e no.

Preghiere, lacrime, sgomento e donazioni a pioggia per la ricostruzione. Tanta attenzione e amore per l’arte e la spiritualità farebbero ben sperare, in un’epoca apparentemente superficiale e disinteressata a tutto ciò che non sia apparire frivolo, vuoto scintillante, banalità. Farebbe ben sperare se non si imponesse una riflessione più approfondita.

Intanto sul reale valore artistico, culturale e simbolico di ciò che è andato perduto. Quanti sono in grado di stimarlo tra coloro che postano le foto della cattedrale in fiamme? Eppure ci si improvvisa esperti d’arte, come del resto di qualsiasi altra cosa. Potere dei social.

Poi su come, nel 2019, l’incendio scoppiato in un edificio religioso possa ancora essere interpretato come presagio, nonostante l’illuminismo e per giunta nella sua patria.

Infine su quanta attenzione meritino la fame e la sete nel mondo, le guerre, i flussi migratori e le troppe ingiustizie nostrane e altri, su quante donazioni attirino.

Soprattutto, su quanto sia cristiano tutto questo pregare e spendersi per una guglia mentre si ignorano l’umana ingiustizia e la sofferenza del fratello. Il prossimo. Il meno prossimo.

Insomma sebbene qualcosa bruci, non è d’amore. Men che mai d’amore Cristiano.

“È esistito un unico cristiano ed è morto sulla croce”, diceva Nietzsche.

Forza, diamogli torto.

Pensieri e parole senza tempo

A cura di Zar@

L’uomo, che ha raggiunto la perfezione, è il più nobile degli animali. Separato dalla legge e dalla giustizia, è il peggiore.

(Aristotele)

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.

Spazio classici della poesia: Spleen

A cura di Zar@

Paul Verlaine


Le rose erano tutte rosse
e l’edera tutta nera.

Cara, ti muovi appena
e rinascono le mie angosce.

Il cielo era troppo azzurro
troppo tenero, e il mare

troppo verde, e l’aria
troppo dolce. Io sempre temo

– e me lo debbo aspettare!
Qualche vostra fuga atroce.

Dell’agrifoglio sono stanco
dalle foglie laccate,

del lustro bosso e dei campi
sterminati, e poi

di ogni cosa, ahimé!
Fuorché di voi.

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari

Incontro con la solitudine: racconto in progress 4

A cura di Zar@

La città rende disponibile ciò di cui hai bisogno ogni tanto. Le località più piccole ciò che ti serve ogni giorno e di cui non puoi fare a meno.

Il via vai della gente che si distribuisce tra le auto, gli autobus e i marciapiedi è frenetico.

Tra edonismo e pragmatismo americano, di fronte a me vedo una massa indistinta. Il caos primordiale, il migma originario, indeterminato nella sostanza, omologato nella forma.

Lo sguardo sulla città è rumore di traffico e mezze parole colte da labbra di ogni età, odori neutri o sgradevoli, vetrine, parcheggi e umanità varia. Varia ma, come direbbe Pasolini, indistinguibile. L’ambulante che baratta il parcheggio con l’acquisto di calze e fazzoletti, il barbone che chiede l’elemosina davanti al supermarket, gli stranieri che si guardano intorno e puntano una chiesa dopo aver consultato una guida turistica, le coppie, i single, gli adolescenti in gruppo, i bambini che giocano a strattonarsi, i gazebo che raccolgono firme e offerte per le cause più varie, la stravaganza banale di chi ostenta una diversità manieristica, le promesse di piaceri e divertimento notturno, l’ambulanza che sfreccia e, come sottofondo, una babele linguistica.

Essere e dover essere coincidono. Ogni cosa è al suo posto. Tutto emerge e nulla spicca. Come un fiume in piena, ciò che prevale è il flusso, non ciò che trascina. La massa enorme e uniforme che scorre.

Ho perso interesse. Per il mondo, per le persone, per l’animo umano. Ogni tanto scorgo qualche anziano, gli unici distinti e distinguibili qui. Ne distingui il linguaggio, verbale e corporeo, il modo di pensare, di agire, di vestirsi e di essere. Sono rimasti gli unici a destare il mio interesse. Forse perché sono gli unici che riconosco, in mezzo alla massa indifferenziata.

Se ne vanno gli ultimi riconoscibili e in città sembrano ancora di meno.

Li vedi camminare per strada, avanzando come chi non si stupisce perché niente più desta stupore. Niente sorprende.

Oggi è così. Nulla sorprende e tutto indigna, di un’ indignazione di maniera che mi rende insopportabile ogni conversazione.

Va scomparendo la semiologia di un popolo intesa come codice, comportamento, linguaggio, cultura. Come Spirito. Al suo posto, il prodotto della globalizzazione modernistica e totalitaria del consumo. Un’umanità che non è più natura né spirito. Smaniosa di consumare, di esibire, di apparire. Ansiosa di adattarsi, di uniformarsi, di perdersi in questa tirannide leggera e giocosa, piena di niente e vuota di tutto. Adagiata nel benessere e rammollita dalle comodità senza le quali non è nulla.

La verità è che oggi o consumi o sei fuori dal consumo e dal mondo che è improntato sul consumo, ma sempre con un piede dentro. Non ci sono alternative. Non ci sono più. Nessuno si difende più perché non sa di doverlo fare.

Guardi le persone. Le guardi e sono tutte uguali. Le ascolti e hai la stessa impressione. Categorizzabili e nello stesso tempo indistinguibili. Sono “gay”, “etero”, “trans”, “bianchi”, “neri”, “cittadini”, “stranieri”, “benestanti”, “barboni”, “prostitute”, “di destra” e “di sinistra”. Sono tutto e non ancora uomini. O non più uomini. Sono consumatori. Li accomuna il pensiero, il linguaggio, ciò a cui ambiscono, il modo di comportarsi, di essere o di arrendersi al mondo.

Li accomuna ciò che hanno o ciò che vorrebbero avere per essere. Nel loro essere per consumare o consumare per essere, sono indistinguibili. A distribuire questa massa informe nelle varie categorie è la forma.

La sostanza è omologazione e indifferenziazione.

Il barbone e l’ambulante sono vestiti allo stesso modo dell’adolescente, dell’operaio e dell’impiegato. Marchio più marchio meno. Se li senti parlare sono entrambi un concentrato di luoghi comuni, egoismi, egocentrismo e disinteresse per l’altro da sé. Sono una logorrea di problemi personali e disagio. Problemi e disagio che hanno un nome, una certificazione, un alibi. Hanno un ente o un’associazione che li gestisce, un prete che li assolve e la stessa mancanza di volontà. La stessa presunzione di libertà. Lo stesso rammollimento di tutto e di tutti. La stessa resa alla società dei consumi e alla massificazione delle coscienze e delle esistenze. La stessa intollerante tolleranza. La stessa appartenenza ad altro, ma non a se stessi.

Lo stesso esser dentro. Lo stesso esser fuori.

Mi ha stancato anche la retorica del diverso. L’esaltazione di questa o quella sottocategoria umana. Dov’è la diversità? Non la vedo. Non c’è. Non c’è più.

Non vedo un solo atto di ribellione nella popolazione giovane e meno giovane ma non ancora anziana. Solo abbandono o fuga. In ogni caso resa incondizionata. Il consumismo vince e nessuno resiste perché nessuno ha consapevolezza del nemico.

Mi aggrappo dunque agli ultimi distinti, gli anziani, pendo dalle loro parole di terra, di vino e sudore. Ne ascolto le storie di gnomi, fate e costellazioni. Mi perdo nelle foto ingiallite, negli sguardi genuini di fame, di rabbia e di vita. Mi abbevero delle chiuse granitiche alle frivolezze, al luogo comune, all’inconsistenza.

Ne osservo il vestiario da museo etno-antropologico. Mi incantano i loro volti rugosi, le mani sapienti e gli occhi sul mondo. Mi commuove saperli capaci di ascoltare. Il mostrare interesse di chi prova realmente interesse. La capacità di essere se stesso e nient’altro.

Li guardo cercando di carpire un segreto che non possono trasmettermi. Sono figlia di questo mondo, mi piaccia o no. Io sono massa indistinta, al pari degli altri.

Ho perso interesse e ho smesso di mostrarlo. Non me lo aspetto più. E chi lo simula non mi fa più rabbia, ma tenerezza. Provo compassione per chi pensa che possa bastarmi. Per chi si sforza di recitare una parte, pensando che sia indispensabile per ottenere da me ciò che vuole. Pensano di comprarmi, di consumarmi, perché non sono capaci di fare altro. Non sanno e non possono esser altro, se non consumatori.

Compatiscono o condannano la mia solitudine, ma non colgono la loro. Questo inganno di socialità, di emancipazione, di atomistica autorealizzazione o autoesclusione.

Hanno sentito, letto, sperimentato che così va il mondo. Seguono il passo e sgomitano per arrivare primi. Vanno, ma non arrivano mai.

Io li guardo da fuori e da lontano. E mi annoiano, profondamente.

Recensione: Quando mi chiameranno uomo? L’ultimo libro della giornalista e scrittrice Francesca Mereu.

A cura di Pasqualina Traccis

Quanto è lungo il cammino verso la libertà e l’eguaglianza? Di quali atroci e insensate sofferenze è lastricato? Quando sarà che un uomo potrà essere chiamato semplicemente uomo, senza ulteriori e inutili specificazioni legate al colore della pelle, alle preferenze sessuali o alla condizione sociale?

“Quando mi chiameranno uomo?” è l’ultimo libro di Francesca Mereu, edito da Le Mezzelane. La giornalista e scrittrice sarda, che da tempo vive e lavora tra Mosca e l’Alabama, ripercorre il lungo calvario degli afroamericani dalla schiavitù alla segregazione, alla criminalizzazione attuale.

Il racconto si snoda lungo le strade e le città del profondo sud americano. Si distribuisce nelle testimonianze di persone che hanno ereditato e vivono sulla propria pelle una perenne condizione di diversa eguaglianza.

Sono storie personali che si intersecano con la storia generale di una minoranza oppressa e martoriata, ancorché mai sconfitta. Raccontano di anime capaci di lotta e sublimazione della sofferenza nella magia del blues.

Un racconto lineare, appassionante e onesto che non cela al lettore gli aspetti più controversi, duri e scabrosi di una storia che contrasta con il sogno americano.

Il libro palesa infatti lo scandalo dell’ineguaglianza e della violenta sopraffazione nel Paese dell’opulenza, del modernismo e delle libertà.

Le parole dei protagonisti sono lacrime di umanità in un contesto di ingiustizia e disumana negazione di umanità. Sono espressione di dolore e paura. Paura del diverso e della libertà, alimentata da luoghi comuni e “si sa” (“i neri, si sa, amano le bianche”; “i neri, si sa, hanno paura dei cani”…). Parole che fanno riflettere: quanta parte dell’esistenza umana si ricama intorno ai “si sa”? E a quale prezzo?

Le testimonanze documentano inoltre la lotta per i diritti; le storiche marce sotto la guida del dott. King e le infinite battaglie che hanno portato a vittorie effimere, a continue ridefinizioni dell’odio e delle modalità di discriminazione e separazione.

Con i suoni tristi e taglienti del blues a lenire la pena, a ritmare le vite di coloro che ancora aspettano di essere considerati semplicemente e pienamente uomini.

La scrittura limpida e chiara di Francesca Mereu, rende la lettura scorrevole e piacevole, oltre che interessante ed emozionante. Da leggere!

Per saperne di più sull’autrice e acquistare il libro clicca qui

Spesso il male di vivere ho incontrato/Spazio classici della poesia

A cura di Zar@

Oggi proponiamo una delle poesie più note e belle di uno dei poeti italiani più grandi del Novecento: Eugenio Montale.

Spesso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l’incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Incontro con la solitudine 3: racconto in progress…

A cura di Zar@

La solitudine può essere una compagna sorprendente. Pur non amandola hai la certezza della sua assoluta fedeltà. Non si può dire altrettanto delle persone, c’è poco da fare.

Io non sono stata sempre sola. Ragionandoci non può essere andata così. Mia madre era una donna piuttosto premurosa. Sempre presente. Morbosa, per certi versi.La mia inoltre era una famiglia numerosa. Esser soli in famiglia era impossibile. Ma la solitudine, si sa, è un fatto interiore. Questo credo di averlo capito presto.

Il mio esilio personale è iniziato nell’età dell’innocenza. La mia innocenza è stata la sua prima vittima.