La musica è la cosmesi e il nutrimento dell’anima, incanto, respiro e sostentamento.
Forza vitale e bellezza.
Mi piace la musica italiana e internazionale, se buona s’intende.
Non seguo mode e tendenze, soprattutto quelle che spacciano per musica ciò che è poco meno di rumore.
Il nulla fatto canzone, dei generi musicali e dei cantanti più in voga, mi crea disagio. Imbarazzo.
Non permetto a nessuno di dettarmi il gusto.
Scelgo io cosa ascoltare e cosa respingere al mittente.
Oltre le imposizioni del mercato che sponsorizza il brutto e ciò che non ha valore, mentre censura di fatto le “cose buone e giuste” che ancora qualcuno spaccia, di nascosto dai media tradizionali e all’oscuro del grande pubblico.
Artisti veri e puri che lottano ogni giorno contro i mulini a vento per restare fedeli a se stessi e all’arte.
Prossimamente vi proporrò la mia personale Playlist su Spotify che aggiornerò costantemente.
Spero che vi piacerà!
I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.
Sei la terra e la morte. La tua stagione è il buio e il silenzio. Non vive cosa che più di te sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti sei soltanto dolore, l’hai negli occhi e nel sangue ma tu non senti. Vivi come vive una pietra, come la terra dura. E ti vestono sogni movimenti singulti che tu ignori. Il dolore come l’acqua di un lago trepida e ti circonda. Sono cerchi sull’acqua. Tu li lasci svanire. Sei la terra e la morte.
3 dicembre 1951
I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietà
Il festival del “di tutto un po’”, purché sia mediocre e facilmente smerciabile con un buon ritorno economico e poca spesa. Ormai sembra questa la logica della produzione musicale in Italia. Personalmente non considero il vincitore, giovane cantautore sardo-egiziano Mahmood, né migliore né peggiore degli altri che quest’anno hanno animato la kermesse musicale sanremese. Così come non ho trovato lo spettacolo in sé più noioso di altre annate. Ciò che mi ha stancato è l’ennesima conferma dell’imbarbarimento della canzone italiana, quella che passa nelle radio e in tv, figlia dei Talent e ancella di questo nuovo genere che fatico a definire musicale: il Trap.
Questa edizione di Sanremo tra l’altro ne sancisce la fusione e delinea chiaramente la già citata tendenza del mercato musicale attuale: massimo profitto con il minimo investimento e a scapito della qualità.
Culturalmente si tratta di una grande perdita per tutti.
Testi e sonorità trite e ritrite, banali e noiose, voci tutte uguali, come (ri)prodotte in serie, tematiche standard, nessuna emozione, nessuna vera novità.
La musica di qualità non c’è più? È morta? O viene semplicemente censurata dal mercato, con i suoi monopoli, finendo per non esistere più per nessuno? A noi consumatori la risposta.
Giordano Bruno, filosofo, nel 1600 pagò con la vita la propria instancabile e ferma difesa della libertà del pensiero e della ricerca.
Scriveva:
Possa io tener lontano da me non solo la consuetudine di credere, instillata da maestri e genitori, ma anche quel senso comune che in molti casi e luoghi appare colpevole di inganno e di raggiro; possa io tenerli lontani in maniera da non affermare mai nulla, nel campo della filosofia, sconsideratamente e senza ragione; e siano per me ugualmente dubbie tutte le cose, tanto quelle che sono reputate astrusissime e assurde, quanto quelle che sono considerate le più certe ed evidenti, tutte le volte che vengono messe in discussione.
Giordano Bruno, Epistola dedicatoria a Rodolfo II, in Articuli adversus mathematicos.
Come un’amante gelosa, vorrei che il mare mi riservasse le confidenze e le carezze delle onde.
Nella stagione estiva però sono solo una tra le tante che se ne contendono le attenzioni e la cura. Pertanto scelgo le prime ore del mattino, quando le persone ancora dormono o stanno per svegliarsi, siedo sulla riva e mi lascio coinvolgere nella danza marina, nel suo darsi e sottrarsi alla sabbia. Cerco di vedere al di là dell’orizzonte, come facevo da bambina. Vedere l’invisibile. Vedere nel senso di toccare ed esser toccata da un certo impatto col mondo.
Con le mani nella sabbia traccio segni e impronte che il mare cancella per custodirle, in un gesto di salvezza. Il sole si affaccia timidamente e un raggio di luce mi stuzzica il viso. Sento un brivido caldo e gli occhi che si riempiono di azzurro e luccichii. È quello il momento in cui parliamo lo stesso linguaggio, il mare e io. Siamo linguaggio. La parola attraverso la quale l’evento accade, viene a essere un mondo. Siamo mondo.
Per un istante svanisce l’angoscia di essere nulla e intorno ogni cosa sembra giovare al mio esserci. Sembra trovare senso. Il senso della domanda: “perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente?”
Ma i pensieri spariscono per poi riemergere, come le onde, svelando la cooriginarietà tra uomo e mare. Tra Universo e linguaggio. Un istante dopo, penso che la contingenza delle cose è la cifra del loro essere. Le cose sono, ma potrebbero non essere. Si perde dunque nelle onde il senso del mio esserci. Non necessario. Assurdo. È così che il domandare dell’uomo si approssima alla preghiera. Di nuovo mi sento segno. Qualcosa che sta per qualcos’altro che non conosce e che non è. Parte di un dialogo intramondano.
L’eterno ritorno delle onde e il loro potere modellante sembra suggerirmi che posso ancora plasmare un significato. Il rumore fragoroso e instancabile sembra ripetermi che la stanchezza è solo un alibi.
Mi ricorda che sono questo, l’altro dal mare. Posso essere ostacolo al suo infrangersi o carcassa da trascinare. A me la scelta. Al caso le alternative. Chissà poi perché ci si incontra se nemmeno ci riconosce…
Un rumore di passi svelti interrompe il flusso dei miei pensieri. Mi volto e scorgo un uomo che corre, proviene forse dal villaggio turistico della spiaggia vicina. Ne riconosco il travestimento da eroe dello jogging, con contapassi al polso e sguardo compassato da salvatore del mondo. Esiste un travestimento per qualunque attività, oggigiorno. Quando ero piccola si usciva in strada e si giocava a pallone così come si era vestiti. Pantaloncini o vestitino e sandali, per me non faceva differenza. Si montava sulle bici senza freni e giù dalle discese più ripide, senza timori. Oggi per pedalare devi essere travestito da ciclista, per tirare due calci al pallone devi avere la divisa della tua squadra e le scarpe da calcio. Per correre o fare palestra devi essere travestito da fico. È il benessere e il suo potere omologante.
Improvvisamente le carezze del mare diventano più insistenti, le onde corpose e la sua voce un boato. Il sole si nasconde dietro una nube scura. La comparsa del vacanziero e la prepotenza improvvisa del mare sembrano legate da un nesso causale. In realtà sono io che stabiliscono improbabili correlazioni. Ma la problematicità del pensiero è pura emozione e perciò non va evitata, anche se costa l’incompiutezza del cammino. La storia antropologica è anche storia (emozionale) di questa incompiutezza.
L’urlo impetuoso del mare mi appare una reazione alla pro-vocazione della vicina industria del turismo. Il suo rifiuto di essere “impiegato”. È sublime la forza del mare che in autunno, con le prime piogge abbondanti, rimodella la spiaggia, cambiandole forma, come a rivendicarne il possesso. Nella lotta strenua col mare, anche il fiume si arrende e lungo la foce si crea un interregno spettacolare di acqua dolce e salata. Come una tregua.La perturbazione o quello che era dura pochissimo. La nube si allontana e il mare riprende il massaggio dolce e il suono monotono, rassicurante. Danzano di nuovo onde e memorie. Mentre il provvisorio lambisce l’ancora più provvisorio. La pelle come frontiera. Entrambi contingenti, ma chi dei due è più insignificante? Il mare è pura meccanica, mi dico. Incapace di dare un senso a se stesso e al mondo. Non è poi così diverso da me. Entrambi poniamo domande, con il nostro stesso essere, ma le risposte sono indeterminate o semplicemente possibili.
Ho dalla mia l’affettività. Il mare procura emozioni, smuove sentimenti e pentimenti, patimenti, inquietudini. Sa come scuotermi. Trova il modo di placare le mie ansie. Nel mare posso rispecchiare i miei squilibri. Fingermi infinito. Ritrovarmi inconsistente e passeggera, senza meta. Il mare sa farsi desiderare, amare, odiare. Ma queste stesse emozioni è incapace di ricambiarle. In una sorta di narcisismo inconsapevole, non è capace di reciprocità affettiva. Sono io che lo cerco. Il mare non mi cerca mai. Al massimo mi viene incontro. Sono io che mi intrometto nella sua danza. Io che ne ho bisogno e che lo sento amico. Ma l’amicizia esige la reciprocità. Certo, esige anche la distanza. Non come isolamento o distacco, ma come esigenza di autenticità. È perché voglio l’amicizia che rifiuto “i rapporti di buon vicinato”. Ma ogni creatura secerne il proprio vuoto, come diceva Sartre. Con quell’esilio minimo che ciascuno si porta dietro, ovunque vada. La distanza del mare è indifferenza. La mia bisogno. Entrambi siamo determinati dalla propria natura. Entrambi natura. Essere. Contingenza che rimanda al necessario, come concetto, come speranza. Speranza che è fuga. Fuga che è ritorno alla domanda. Perché l’ente? Perché me?
Forse sono queste onde, il loro ritrarsi per poi tornare, che mi tengono prigioniera di questo circolo interpretativo. I miei pensieri non si arrestano, di domanda in domanda. Mi sembra di essere qui da ieri. Lo stomaco protesta, non ho ancora fatto colazione. Anche porre problemi è un esercizio fisico (letteralmente). Di nuovo passi, più corti e trafelati, inconfondibili. Il primo istinto è alzarmi e fuggire. Il maledetto orgoglio mi tiene ferma. Ho paura dei cani e odio quando mi annusano o mi leccano i piedi. Odio ancora di più i padroni che ti guardano con quel sorriso complice. Gli animali mi piacciono e ne ho rispetto, ma l’esuberanza dei cani proprio non la reggo. Anche se, piano piano, riescono sempre a conquistarmi. Il cane in questione è bellissimo. Una nuvola bianca e goffa. Mi si avvicina e senza annusarmi si siede accanto a me. Come se già mi conoscesse. Per qualche secondo siamo io, il cane e il mare.
Poi arriva il padrone, il quale viene da Ancona, non capisce le battute e parla di cose che dopo qualche minuto non ascolto più. Quando si allontana ripenso ai suoi modi affettati e alla prima frase: “sono architetto”.
Eccola, di nuovo, la condanna dell’uomo alla libertà. Il suo essere progetto. Responsabilità di scelte proprie. Eccolo, il peso della libertà. Rabbrividisco ogni volta che qualcuno dice “sono” (e non “faccio”) geometra, pittore, ruspista, insegnante, psicologo, musicista…
Mi inquieta il rifugiarsi in un ruolo sociale rigidamente prestabilito per sfuggire all’angoscia della libertà. Il recitare una parte talmente bene da non sentire di eccedere rispetto ad essa. A qualunque ruolo egli stesso o gli altri possano attribuirgli. I ruoli sono rassicuranti, ma noi esseri umani siamo di più. Siamo altro. Siamo possibilità. Tutti, a qualunque età. L’unico senso che riesco a concepire risiede in ciò. In questa rappresentazione di me stessa mi rifugio a ogni no detto.
Scelgo. Mi scelgo.
Il tempo passa e la spiaggia piano piano si riempie. Io cammino già da un po’ e il mare lo sento ancora, sulla pelle e come voce interiore. Come intuizione estetica. Raggiungo l’auto, parcheggiata a distanza come scusa per fare passi in più. La giornata è appena iniziata e io mi sento già scarica. Farò una doccia, nella speranza che l’acqua, con la salsedine, lavi via anche la stanchezza mattutina.
«Sì sono braccata! Da chi? Da me stessa. Sono io che mi sbarro il passaggio, io mi trascino, mi spingo mi arresto, mi condanno.E quando ci si lega da sè, si è ben legati».
Victor Hugo
«Piantarsi in mezzo a questa […] intera meravigliosa incertezza e ambiguità dell’esistenza e non porre dei problemi, non tremare dalla brama e dal piacere di porre problemi […] questo è quel che io sento spregevole».
Certi libri non puoi leggerli per conciliare il sonno. A me succede con quelli che utilizzano un linguaggio implicito, indiretto, che prospettano situazioni indefinite nella descrizione degli eventi e delle emozioni.
Narrazioni che si interrompono un attimo prima che capiti il peggio, ma che ti fanno percepire tutta la tensione, come se fossi là, come se fossi tu, come se non avessi scampo. Non insistono sul macabro o sul sordido, lo prospettano senza dettagliarlo, pare che censurino o che vogliano proteggerti, alleggerire, invece caricano il lettore di tensione finché questa non diventa una seconda pelle. E quando il libro è ormai chiuso e non può più nuocere, la tua mente lavora ancora, persiste nell’angustiarsi. Mi sono fatta un’idea a riguardo. Le descrizioni dettagliate, il linguaggio diretto, nudo e crudo, ti pongono davanti alle scene più cruente, sordide e inquietanti, te le rappresentano per quelle che sono, senza possibilità di scampo.
Proprio per questo sono in un certo senso più rassicuranti. La realtà che ti raccontano, per quanto terribile o angosciante, è infatti quella e non può essere nient’altro. Le emozioni durante la lettura raggiungono l’apice, scaricandosi su una situazione precisa, per poi scemare come in una sorta di catarsi. La realtà è contingente, circoscritta, definita.
La possibilità invece è sempre aperta. Una minaccia indefinita e incombente, angosciante. Saper cosa ti aspetta non è come non saperlo.
Una descrizione meno dettagliata e un linguaggio più velato, indiretto, aprono un universo di possibilità per la mente, la quale non si arresta alla realtà delle cose come ad un approdo sicuro. Un approdo certo, per quanto terrificante, è più rassicurante di nessun approdo o di tutti gli approdi del mondo. L’ansia non è mai alimentata da una situazione reale, bensì da una possibile. Dalle possibilità che la mente si prospetta. Naturalmente molto dipende dall’abilità dello scrittore.
La stessa cosa vale per emozioni positive, come la compassione, la tenerezza, l’eccitazione. Ci sono scrittori che sanno emozionare lasciando al lettore quel senso di insoddisfazione che è la chiave di tutto. Il motore umano per eccellenza. Immaginiamo dunque siamo.
La notte ha tanti occhi, il giorno uno solo. Ma se accecassi quell’unico occhio, la vita intera si spegnerebbe. Non è questione di una luce o cento.
Il punto non è neppure la luce, ma quanto illumina, quale sentiero e quanto sia bello perdersi. Nelle strade, nei focolari, negli occhi. Nel tormento degli sguardi. Nelle ossessioni delle mancanze. Nelle illusioni, che poi sono solo distrazioni, vie di fuga, da sé prima di tutto.
Amare è compromettersi. Al calar della notte, svestirsi delle proprie carni per concedersi al sogno – inconfessabile – di un nuovo innocente peccato. Scoprire la lacerante grazia del contraddittorio.
La bellezza di un essere notturno che disarma, per arrendersi al proprio opposto: il nulla. Ciò che siamo.
I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.
Abbracciami scacciami alziamo le mani siamo preghiere e bestemmie luna nei palmi sale nelle vene Solitudini Smarrite come versate al cielo al pianto sei di neve sei di niente come il nostro cammino Come il nostro altrove.
Ci sono cuori autocentrati, serrati come forzieri, impenetrabili, freddi come il vento di tramontana e distanti come le stagioni appena trascorse.
Spicchi di ardori spenti, malinconie imprecise e vanità.
Ti guardano senza vederti e quando provi a dire “ti amo”, sembra che la tua voce provenga da un altro mondo, troppo lontano per essere udita.
Persistono nel loro silenzio meditabondo e compiaciuto oppure indugiano nel solito lungo monologo ammantato di dialogo col quale annichiliscono ogni tuo slancio.
Dicevamo? Io nulla. Tu troppo.
E non cose, bensì parole, vuoti significanti senza senso e ordine.
Da perdersi e scomparire nel marasma di fonemi. Da rimanerne storditi. Come un vomito.
Però non ti arrendi. Pensi, sarà un momento, passerà.
Mi vedrà, prima o poi, e allora sentirò l’eco del mio respiro nel suo. Il vento caldo arriverà da sud e il forziere si spalancherà.
Ma il vento cambia e tutto intorno resta immutato, identico a prima. Come cristallizzato in un eterno mai.
Le pietre preziose restano pur sempre pietre. Rilucono, ma senza emanare calore.