Incontro con la solitudine 2: racconto in progress

A cura di Zar@

Vivo una vita che è la mia condanna. Sepolta nel mio mondo interiore come in un volontario isolamento.

Non sento il bisogno dell’altrui presenza e non la disdegno, sarebbe la mia salvezza – a dire il vero – ma non la cerco.

Io non ho alcuna pretesa di salvezza, del resto. Sarebbe già sufficiente non fare a pugni col mio tempo. Abbiate pietà di questo mio rifiuto della vita ha ragioni lontane e radici ben piantate.

Quando avevo 12 anni pensavo di essere un’adolescente come tante, con un buon quoziente intellettivo e qualche problema a stare al mondo, forse, a stringere amicizie e relazioni durature. Una di quelle anime introverse e strabordanti di fantasia e complessi esistenziali. Sofferenti per necessità e per gioco. Allegre per caso e a intervalli irregolari.

Mi son dovuta ricredere. Zara che si fa oggi? Si studia o si esce? Spegni quella musica e lascia spazio alla vita vera, quella fuori da scuola e da casa. Ester, mi senti?

La vita vera. Quella dei cortili bagnati, delle strade roventi per il sole di mezzogiorno, dei jeans a zampa di elefante e degli sguardi furtivi dei potenziali amori.

La vita delle compagnie cui non ho mai saputo appartenere. Il gruppo, per me, era un concetto astratto. Un contenuto immaginato. Un sentito dire.

Non sono mai stata adatta alla vita vera. Questo è.

Incontro con la solitudine: racconto in progress.

A cura di Zar@

Mi riprendo l’attimo, la vita presente, superando il torpore del ricordo della vita. Esco in strada, calma e vuota, per ripercorrere i passi smarriti di un cammino di libertà. Il confine e la fine di tutto.

Cosa sono oggi? Non ciò che ero ieri o avantieri. Certo qualcosa di nuovo o se non altro di diverso.

Un soffio di vento mi riporta il respiro di una mattinata invernale, di quelle ingannevoli, col sole abbagliante e l’aria frizzante che penetra ogni fessura del cappotto procurando la ferita di un brivido tagliente.

I pensieri, annebbiati dal contrasto metereologico, si dileguano e lasciano spazio a un’emozione familiare quanto indesiderata. L’ansia. Non un’ansia qualunque, la mia.

L’ansia mi accompagna, da sempre, mi tiene in vita, mi impedisce di disperdermi in un susseguirsi di pensieri e stati d’animo senza continuità. Matrice della mia autocoscienza, essa lega ogni battito, congiunge ogni sospiro, sogno o elucubrazione come un’attribuzione di senso. Il mio senso.

Àncora agli anni presenti passati e futuri la fenomenologia cangiante della mia anima.

Non ricordo fase, giorno o istante della mia esistenza senza l’ansia, nel profondo o in superficie. Come sfondo, sottofondo o colonna sonora spuria di un’essenza.

Le macchine vanno. Le macchine vengono.
Il cielo si scurisce preparando una nuova entrata in scena del sole, prima timida poi imponente e spettacolare.

Un uomo e una donna mi passano accanto e procedono oltre. Lei si aggiusta il cappotto e commenta con un cenno del capo il lungo monologo del compagno, ad arginare con distacco e noncuranza un fiume in piena. Quest’ultimo stringe nervosamente il cellulare con una mano e con l’altra il braccio destro della donna. Sarà una questione di lavoro. Ha la tipica espressione e mimica di chi si agita per una questione di lavoro o un dissidio col capo. “Non so quanto resisterò ancora prima di dirgli chiaramente ciò che penso di lui…”

Non ho perduto l’abitudine di osservare le persone e immaginarne le storie.

È il mio modo di stare al mondo e tenermi compagnia.

L’unico modo in cui gli altri mi sono sopportabili.

Recensione: La prossima volta saremo felici, la raccolta di racconti di Oliviero Malaspina

A cura di Barbara Cardinale

“La prossima volta saremo felici” è il titolo, geniale, di una raccolta di racconti pubblicata da Galata Edizioni nel 2017, nella quale l’autore, senza affidare la narrazione alla trama compiuta e articolata di un romanzo, sceglie di frammentarla in una serie di “cortometraggi letterari”, che danno conto di una realtà resa variegata e multiforme dalle storie uniche e personali di ciascuno ma che allo stesso tempo è percorsa da un leitmotiv che la rende unitaria: la fragilità e la fatica dell’essere umani.

Così il dolore personale dei vari personaggi che si incrociano nelle pagine del libro assurge a dolore dell’umanità tutta, per chi ha il coraggio di guardarlo in faccia e dargli un nome.

La chiusa, bellissima e commovente, richiama come un’eco il titolo dell’opera e ne offre la chiave di lettura.

Sul piano del significante è l’epilogo ideale di una ricerca stilistica che fonde prosa e poesia fino alle pagine conclusive, in cui la scelta è rovesciata e la poesia si fonde con la prosa. Cioè la prosa lirica predominante diventa sul finale schiettamente poesia, ma a ben guardare lo stile resta il medesimo.

Le righe diventano versi ma hanno l’andamento della prosa e quasi ne mantengono anche l’aspetto grafico: i margini sono gli stessi, cambia solo il carattere col passaggio al corsivo.

I versi sono individuati dagli “a capo” ma sono liberi, sciolti e molto lunghi.

Il significante diventa a sua volta significato e forse ci suggerisce il rifiuto di un confine netto tra poesia e prosa, perché la vita stessa è allo stesso tempo prosa e poesia e rifiuta di fatto e nei fatti l’ideale perfezione alla quale gli uomini aspirano, per lo più celando a sé stessi gli aspetti più dolorosi, scomodi, inconfessabili e persino volgari dell’esistenza.

Cantautore, poeta e scrittore di notevole caratura intellettuale e artistica, Oliviero Malaspina è stato l’ultimo collaboratore di Fabrizio De André…

Per saperne di più sull’autore clicca qui

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Il grande errore

A cura di Zar@

Il grande errore è credere

nei sogni

nelle mete

negli slanci e nelle persone.

Il grande errore è ricredersi

annacquare i ricordi

solleticando i giorni

le attese e gli inganni.

Il grande errore è l’oggi

che non è l’arrivederci

né il mai più.

asd asd

Playlist da Spotify

A cura di Zar@

La musica è la cosmesi e il nutrimento dell’anima, incanto, respiro e sostentamento.

Forza vitale e bellezza.

Mi piace la musica italiana e internazionale, se buona s’intende.

Non seguo mode e tendenze, soprattutto quelle che spacciano per musica ciò che è poco meno di rumore.

Il nulla fatto canzone, dei generi musicali e dei cantanti più in voga, mi crea disagio. Imbarazzo.

Non permetto a nessuno di dettarmi il gusto.

Scelgo io cosa ascoltare e cosa respingere al mittente.

Oltre le imposizioni del mercato che sponsorizza il brutto e ciò che non ha valore, mentre censura di fatto le “cose buone e giuste” che ancora qualcuno spaccia, di nascosto dai media tradizionali e all’oscuro del grande pubblico.

Artisti veri e puri che lottano ogni giorno contro i mulini a vento per restare fedeli a se stessi e all’arte.

Prossimamente vi proporrò la mia personale Playlist su Spotify che aggiornerò costantemente.

Spero che vi piacerà!

Sei la terra e la morte


A cura di Zar@

POESIA DI CESARE PAVESE

Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.

Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.

3 dicembre 1951

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietà

C’era una volta la musica italiana

A cura di Zar@

Sanremo è finito, andiamo in pace.

Non so voi, ma io non ne potevo più.

Il festival del “di tutto un po’”, purché sia mediocre e facilmente smerciabile con un buon ritorno economico e poca spesa. Ormai sembra questa la logica della produzione musicale in Italia. Personalmente non considero il vincitore, giovane cantautore sardo-egiziano Mahmood, né migliore né peggiore degli altri che quest’anno hanno animato la kermesse musicale sanremese. Così come non ho trovato lo spettacolo in sé più noioso di altre annate. Ciò che mi ha stancato è l’ennesima conferma dell’imbarbarimento della canzone italiana, quella che passa nelle radio e in tv, figlia dei Talent e ancella di questo nuovo genere che fatico a definire musicale: il Trap.

Questa edizione di Sanremo tra l’altro ne sancisce la fusione e delinea chiaramente la già citata tendenza del mercato musicale attuale: massimo profitto con il minimo investimento e a scapito della qualità.

Culturalmente si tratta di una grande perdita per tutti.

Testi e sonorità trite e ritrite, banali e noiose, voci tutte uguali, come (ri)prodotte in serie, tematiche standard, nessuna emozione, nessuna vera novità.

La musica di qualità non c’è più? È morta? O viene semplicemente censurata dal mercato, con i suoi monopoli, finendo per non esistere più per nessuno? A noi consumatori la risposta.

Non c’è radio o TV che non si possa spegnere.

Libertà di pensiero

A cura di Zar@

Giordano Bruno, filosofo, nel 1600 pagò con la vita la propria instancabile e ferma difesa della libertà del pensiero e della ricerca.

Scriveva:

Possa io tener lontano da me non solo la consuetudine di credere, instillata da maestri e genitori, ma anche quel senso comune che in molti casi e luoghi appare colpevole di inganno e di raggiro; possa io tenerli lontani in maniera da non affermare mai nulla, nel campo della filosofia, sconsideratamente e senza ragione; e siano per me ugualmente dubbie tutte le cose, tanto quelle che sono reputate astrusissime e assurde, quanto quelle che sono considerate le più certe ed evidenti, tutte le volte che vengono messe in discussione.

Giordano Bruno, Epistola dedicatoria a Rodolfo II, in Articuli adversus mathematicos.

Distrazioni

A cura di Zar@

Le cose migliori accadono quando ci si distrae. E le peggiori.

La distrazione diviene sogno e il sogno ossessione e l’ossessione salvezza e la salvezza dannazione.

L’inconsistenza si frantuma nel suono di una voce, roca e distante. Sei solo questo, dice. Un desiderio abortito. Un’ insana proiezione.

Ho immaginato tutto. Come ho potuto?

I miei occhi ben aperti, eppure incapaci di vedere, come quelli di un cieco. Le braccia tese verso un mai. Il nostro.

La consapevolezza è la mia colpa. La prudenza è la mia pena.

Amami mare

A cura di Zar@

Come un’amante gelosa, vorrei che il mare mi riservasse le confidenze e le carezze delle onde.

Nella stagione estiva però sono solo una tra le tante che se ne contendono le attenzioni e la cura. Pertanto scelgo le prime ore del mattino, quando le persone ancora dormono o stanno per svegliarsi, siedo sulla riva e mi lascio coinvolgere nella danza marina, nel suo darsi e sottrarsi alla sabbia. Cerco di vedere al di là dell’orizzonte, come facevo da bambina. Vedere l’invisibile. Vedere nel senso di toccare ed esser toccata da un certo impatto col mondo.

Con le mani nella sabbia traccio segni e impronte che il mare cancella per custodirle, in un gesto di salvezza. Il sole si affaccia timidamente e un raggio di luce mi stuzzica il viso. Sento un brivido caldo e gli occhi che si riempiono di azzurro e luccichii. È quello il momento in cui parliamo lo stesso linguaggio, il mare e io. Siamo linguaggio. La parola attraverso la quale l’evento accade, viene a essere un mondo. Siamo mondo.

Per un istante svanisce l’angoscia di essere nulla e intorno ogni cosa sembra giovare al mio esserci. Sembra trovare senso. Il senso della domanda: “perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente?”

Ma i pensieri spariscono per poi riemergere, come le onde, svelando la cooriginarietà tra uomo e mare. Tra Universo e linguaggio. Un istante dopo, penso che la contingenza delle cose è la cifra del loro essere. Le cose sono, ma potrebbero non essere. Si perde dunque nelle onde il senso del mio esserci. Non necessario. Assurdo. È così che il domandare dell’uomo si approssima alla preghiera. Di nuovo mi sento segno. Qualcosa che sta per qualcos’altro che non conosce e che non è. Parte di un dialogo intramondano.

L’eterno ritorno delle onde e il loro potere modellante sembra suggerirmi che posso ancora plasmare un significato. Il rumore fragoroso e instancabile sembra ripetermi che la stanchezza è solo un alibi.

Mi ricorda che sono questo, l’altro dal mare. Posso essere ostacolo al suo infrangersi o carcassa da trascinare. A me la scelta. Al caso le alternative. Chissà poi perché ci si incontra se nemmeno ci riconosce…

Un rumore di passi svelti interrompe il flusso dei miei pensieri. Mi volto e scorgo un uomo che corre, proviene forse dal villaggio turistico della spiaggia vicina. Ne riconosco il travestimento da eroe dello jogging, con contapassi al polso e sguardo compassato da salvatore del mondo. Esiste un travestimento per qualunque attività, oggigiorno. Quando ero piccola si usciva in strada e si giocava a pallone così come si era vestiti. Pantaloncini o vestitino e sandali, per me non faceva differenza. Si montava sulle bici senza freni e giù dalle discese più ripide, senza timori. Oggi per pedalare devi essere travestito da ciclista, per tirare due calci al pallone devi avere la divisa della tua squadra e le scarpe da calcio. Per correre o fare palestra devi essere travestito da fico. È il benessere e il suo potere omologante.

Improvvisamente le carezze del mare diventano più insistenti, le onde corpose e la sua voce un boato. Il sole si nasconde dietro una nube scura. La comparsa del vacanziero e la prepotenza improvvisa del mare sembrano legate da un nesso causale. In realtà sono io che stabiliscono improbabili correlazioni. Ma la problematicità del pensiero è pura emozione e perciò non va evitata, anche se costa l’incompiutezza del cammino. La storia antropologica è anche storia (emozionale) di questa incompiutezza.

L’urlo impetuoso del mare mi appare una reazione alla pro-vocazione della vicina industria del turismo. Il suo rifiuto di essere “impiegato”. È sublime la forza del mare che in autunno, con le prime piogge abbondanti, rimodella la spiaggia, cambiandole forma, come a rivendicarne il possesso. Nella lotta strenua col mare, anche il fiume si arrende e lungo la foce si crea un interregno spettacolare di acqua dolce e salata. Come una tregua.La perturbazione o quello che era dura pochissimo. La nube si allontana e il mare riprende il massaggio dolce e il suono monotono, rassicurante. Danzano di nuovo onde e memorie. Mentre il provvisorio lambisce l’ancora più provvisorio. La pelle come frontiera. Entrambi contingenti, ma chi dei due è più insignificante? Il mare è pura meccanica, mi dico. Incapace di dare un senso a se stesso e al mondo. Non è poi così diverso da me. Entrambi poniamo domande, con il nostro stesso essere, ma le risposte sono indeterminate o semplicemente possibili.

Ho dalla mia l’affettività. Il mare procura emozioni, smuove sentimenti e pentimenti, patimenti, inquietudini. Sa come scuotermi. Trova il modo di placare le mie ansie. Nel mare posso rispecchiare i miei squilibri. Fingermi infinito. Ritrovarmi inconsistente e passeggera, senza meta. Il mare sa farsi desiderare, amare, odiare. Ma queste stesse emozioni è incapace di ricambiarle. In una sorta di narcisismo inconsapevole, non è capace di reciprocità affettiva. Sono io che lo cerco. Il mare non mi cerca mai. Al massimo mi viene incontro. Sono io che mi intrometto nella sua danza. Io che ne ho bisogno e che lo sento amico. Ma l’amicizia esige la reciprocità. Certo, esige anche la distanza. Non come isolamento o distacco, ma come esigenza di autenticità. È perché voglio l’amicizia che rifiuto “i rapporti di buon vicinato”. Ma ogni creatura secerne il proprio vuoto, come diceva Sartre. Con quell’esilio minimo che ciascuno si porta dietro, ovunque vada. La distanza del mare è indifferenza. La mia bisogno. Entrambi siamo determinati dalla propria natura. Entrambi natura. Essere. Contingenza che rimanda al necessario, come concetto, come speranza. Speranza che è fuga. Fuga che è ritorno alla domanda. Perché l’ente? Perché me?

Forse sono queste onde, il loro ritrarsi per poi tornare, che mi tengono prigioniera di questo circolo interpretativo. I miei pensieri non si arrestano, di domanda in domanda. Mi sembra di essere qui da ieri. Lo stomaco protesta, non ho ancora fatto colazione. Anche porre problemi è un esercizio fisico (letteralmente). Di nuovo passi, più corti e trafelati, inconfondibili. Il primo istinto è alzarmi e fuggire. Il maledetto orgoglio mi tiene ferma. Ho paura dei cani e odio quando mi annusano o mi leccano i piedi. Odio ancora di più i padroni che ti guardano con quel sorriso complice. Gli animali mi piacciono e ne ho rispetto, ma l’esuberanza dei cani proprio non la reggo. Anche se, piano piano, riescono sempre a conquistarmi. Il cane in questione è bellissimo. Una nuvola bianca e goffa. Mi si avvicina e senza annusarmi si siede accanto a me. Come se già mi conoscesse. Per qualche secondo siamo io, il cane e il mare.

Poi arriva il padrone, il quale viene da Ancona, non capisce le battute e parla di cose che dopo qualche minuto non ascolto più. Quando si allontana ripenso ai suoi modi affettati e alla prima frase: “sono architetto”.

Eccola, di nuovo, la condanna dell’uomo alla libertà. Il suo essere progetto. Responsabilità di scelte proprie. Eccolo, il peso della libertà. Rabbrividisco ogni volta che qualcuno dice “sono” (e non “faccio”) geometra, pittore, ruspista, insegnante, psicologo, musicista…

Mi inquieta il rifugiarsi in un ruolo sociale rigidamente prestabilito per sfuggire all’angoscia della libertà. Il recitare una parte talmente bene da non sentire di eccedere rispetto ad essa. A qualunque ruolo egli stesso o gli altri possano attribuirgli. I ruoli sono rassicuranti, ma noi esseri umani siamo di più. Siamo altro. Siamo possibilità. Tutti, a qualunque età. L’unico senso che riesco a concepire risiede in ciò. In questa rappresentazione di me stessa mi rifugio a ogni no detto.

Scelgo. Mi scelgo.

Il tempo passa e la spiaggia piano piano si riempie. Io cammino già da un po’ e il mare lo sento ancora, sulla pelle e come voce interiore. Come intuizione estetica. Raggiungo l’auto, parcheggiata a distanza come scusa per fare passi in più. La giornata è appena iniziata e io mi sento già scarica. Farò una doccia, nella speranza che l’acqua, con la salsedine, lavi via anche la stanchezza mattutina.

«Sì sono braccata! Da chi? Da me stessa. Sono io che mi sbarro il passaggio, io mi trascino, mi spingo mi arresto, mi condanno.E quando ci si lega da sè, si è ben legati».

Victor Hugo

«Piantarsi in mezzo a questa […] intera meravigliosa incertezza e ambiguità dell’esistenza e non porre dei problemi, non tremare dalla brama e dal piacere di porre problemi […] questo è quel che io sento spregevole».

Friedrich Nietzsche