Eikasia oggi vi propone la recensione di un libro freschissimo di pubblicazione. Gli autori sono noti al nostro blog, che in passato ha già ospitato altri due libri: La prossima volta saremo felici di Oliviero Malaspina e Nel nome di ieri di Giuseppe Cristaldi.
I due, nel 2014, hanno collaborato alla realizzazione dell’album Malaspina. Entrambi inoltre sono stati legati al nome De Andrè, il primo come collaboratore di Fabrizio e del figlio Cristiano, e il secondo come coautore dell’autobiografia pubblicata dallo stesso Cristiano.
A cura di Pasqualina Traccis
Ho appena finito di leggere Drammaturgia degli invissuti, libro scritto da Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina, pubblicato da Fallone Editore.
Il primo istinto è stato recensirlo, al fine di condividere con voi questa non comune esperienza di lettura.
Se mi domandassero di che cosa parla, risponderei d’amore. E del suo opposto: la morte. Parla di un dolore “perpetuo e inestinguibile”. Come l’amore. Come la morte.
Amore che non muore, ma si alimenta di morte e si fa sempre più grande, pagina dopo pagina, sempre più devastante e salvifico, “preghiera senza ritegno” e “gesto politico di estrema civiltà”.
Spesso si dice di questo o quel libro che “rompe gli schemi”.
Tuttavia quelli che lo fanno davvero sono una rarità. Anche perché la “rottura degli schemi” è diventata un nuovo, noioso e ingombrante schema, che afferma piuttosto che negare l’ordine, liquido e consumistico, della società attuale.
Drammaturgia degli invissuti è invece un’opera che osa deviare dai circoli viziosi estetici e mentali di tanta letteratura uguale a se stessa, che oggi satura il mercato editoriale.
Amalgamando le tinte forti della prosa con le pennellate soavi della poesia, gli autori dipingono un’opera esteticamente incompatibile con questo tempo leggero e senza qualità.
Incompatibilità che è segno del suo valore artistico e di verità.
In essa si alternano e si richiamano visioni poetiche e brevi racconti, e visioni poetiche all’interno dei racconti.
La dialettica di poesia e prosa trova nella prosa poetica la sua sintesi sublime e al tempo stesso il suo realismo.
La sublimazione poetica, infatti, non allontana dalla realtà, ma permette al lettore di afferrarla nella sua complessità, in quanto ne protegge la contraddizione e la coscienza infelice.
Cristaldi e Malaspina sono perfettamente armonizzati nell’anticiparsi, tallonarsi, scansarsi e tenersi per mano fino all’epilogo di disperata speranza.
È questo un libro che commuove, fino alle lacrime.
Come un pugno in faccia stordisce e provoca al tempo stesso una reazione di rabbia, opportuna e quasi salvifica.
La scrittura è talmente bella che vien voglia di leggerlo a voce alta, per sentire come risuonano le parole e le voci che si fanno eco a distanza.
Parole che includono sempre l’uomo e danno un nome alle assenze. Voci rese “alle bocche che non hanno più forza e parole”, per citare una canzone dell’ultimo album di Oliviero Malaspina, a cui ha collaborato lo stesso Giuseppe Cristaldi.
L’opera drammatizza tematiche complesse e contestualizzate – espressione di luoghi ben precisi del sud e del nord – eppure universali.
Nord e sud si contrappongono e si richiamano dialetticamente nel comune destino di un’umanità sofferente e ultima.
Quelle narrate (o cantate) sono storie in parte note, per la morbosa attenzione dei media che se ne servono per intrattenere temporaneamente un pubblico iperattivo e annoiato. Ben diverso lo sguardo del libro, di profonda e umana compartecipazione, di consapevole e coraggiosa denuncia sociale e politica in senso ampio. Uno sguardo interiore che contrasta con quello esteriore dei nostri tempi. Un guardare attraverso e oltre, per scorgere il volto e il colore di ogni cosa.
Quanti colori ha la malattia? La morte? Il bianco del PVC, il giallo isterico delle metastasi epatiche, il bianco su nero della balistica di due corpi, di due esistenze disegnate sull’asfalto. La dignità di chi lotta contro un nemico subdolo che ha il volto del pane, del lavoro, della famiglia, dell’amore, della felicità.
La morte è imparziale solo come destino degli ultimi. Non ci sono vinti del nord e vinti del sud. Tutti i vinti sono uguali nelle lacrime, nella solitudine, nella rabbia soffocata, nella rabbia urlata, nelle danze di amore e morte.
Nella stessa ingiustizia che corona sia la lotta che la resa. Negli abusi di un potere cieco.
Tutti invissuti (come zombie al contrario), in un destino unico di desolazione fisica e morale.
Nelle pagine scritte da Giuseppe Cristaldi e Oliviero Malaspina ci sono persone, storie, allucinazioni, voli pindarici e cocente verità.
Alcune si imprimono indelebilmente nella mente e nel cuore: le tante croci disseminate all’ombra dei petrolchimici, i viaggi della speranza pagati con il mobilio, i martiri delle lotte per una giustizia che ha il volto stravolto dell’utopia. La pioggia rossa dei militari ultimi, quelli che non contano, che si sacrificano per salvare quegli altri che contano e per “insegnare la famiglia”. Le figlie i cui corpi vengono abusati e venduti dai padri come grano, come carne. La solitudine dei vecchi che “adatta l’amore a tutto e fa famiglia il niente”. Quella che non obbedisce a se stessa per potersi proteggere. Il cantico d’amore e morte (ancora) dei drogati. I sogni manomessi. L’umiliazione della malattia che aspetta l’alba e la (di)spera. Le mogli belle senza artifici, perché il sole del sud li sputtanerebbe subito. Il loro amore semplice, concreto e inconsolabile.
Tante emozioni contrastanti eppure reciprocamente incatenate. Emozioni fortissime, un sovraccarico per i viscerorecettori.
Con la consueta pioggia di bellezza che lava via tutto, anche la nausea dell’inconsistenza e dell’essere ad uso e consumo della vita e degli egoismi umani. Lo sconquasso organico di una poesia famelica, folle e misericordiosa.
La grazia di una prosa lirica che è preghiera al dio degli invissuti. O maledizione.
Non è il tempo di fermarsi, balla con me, stramazziamo al suolo incrociando i piedi,
incrociando le mani, rovesciando gli occhi nella contemplazione del delirio.
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