Incontro con la solitudine 4: racconto in progress

A cura di Zar@

Ci si siede sul bordo di una vita, a contemplare se stessi e i propri insoluti. Ci si domanda dove e come ci si è smarriti e se un giorno sarà possibile incontrarsi di nuovo, con gli stessi grigiori negli occhi e le stesse vane speranze.

Io mi sono perduta per caso, come mi ero trovata. In un giorno di rose e liquore caldo, a primavera inoltrata, guardando un ambulante agitare il proprio coltellino svizzero di fronte al suo misero pasto. Una coltre di nebbia sottile e traslucida avvolgeva tutto e suggeriva una giornata storta, con il sole che cercava di insinuarsi tra il bianco vaporoso e la stanchezza dei pensieri.

Mancava un’ora al mio appuntamento con il destino, a me sembrava solo un inutile scorrere di tempo. L’ambulante schioccava le mani e digrignava i denti gialli, guardandosi intorno alla ricerca di acquirenti per le sue cianfrusaglie.

Non appena lo sguardo di un passante si posava su uno degli oggetti in bella mostra sul tappeto logoro, le sue labbra si increspavano in un tiepido e fugace sorriso, spento dall’affrettarsi dei passi in avanti, lontano dal suo spazio di vendita e di vita.

Non capivo come si potesse vivere di così poco, di speranze accese e subito spente, di chincaglieria e ammennicoli. Di strade intrecciate a vite superflue eppure indomite.

Il mio bisogno di silenzio contrastava con la routine cittadina delle persone e delle cose. Tenevo stretta la borsa a tracolla, aggrappandomi ad essa come all’ansia di perdere il treno. O di prenderlo. La decisione di partire era stata presa da giorni, ma il timore di non farcela era sempre più forte.

A quale approdo ero destinata, mi domandavo. Allora non sapevo che non mi sarei più sentita così sola in vita mia e che avrei rimpianto quella sensazione.

Gli artigli del mondo si sarebbero conficcati per sempre nella mia carne, rossa di sangue innocente e viva.

21 anni senza Fabrizio De André, scomparso l’11 gennaio 1999.

A cura di Zar@

Faber è immortale, come lo sono i geni.

Tracciando un solco profondo nella storia della musica, ha seminato parole, note e profonda umanità, che hanno fatto germogliare quella bellezza ineguagliabile che per ognuno di noi è dono perenne e irrinunciabile.

Eppure sono passati 21 anni dalla perdita di questo grande artista, genovese per nascita e sardo per elezione.

Oggi vogliamo ricordare e ringraziare Fabrizio, per il suo sguardo puntuale e acuto sul mondo, così misericordioso nei riguardi degli ultimi, così implacabile verso i potenti e le loro angherie. Per il suo essere (tuttora) fuoco che illumina e scalda menti e cuori. Lungimirante come solo un classico sa essere.

Il nostro grazie arriva insieme alla nostalgia, con il testo di una canzone bellissima che tanto gli somiglia: Amico fragile.

Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte feritoie della notte
con un bisogno d’attenzione e d’amore
troppo, “Se mi vuoi bene piangi “
per essere corrisposti,
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo “Mi ricordo”:
per osservarvi affittare un chilo d’erba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e regalare a piene mani oceani
ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,
fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità:
perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.E poi sospeso dai vostri “Come sta”
meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,
tipo “Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”
“Lo sa che io ho perduto due figli”
“Signora lei è una donna piuttosto distratta.”
E ancora ucciso dalla vostra cortesia
nell’ora in cui un mio sogno
ballerina di seconda fila,
agitava per chissà quale avvenire
il suo presente di seni enormi
e il suo cesareo fresco,
pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci,
mi sentivo meno stanco di voi
ero molto meno stanco di voi.Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta
fino a vederle spalancarsi la bocca.
Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli
di parlare ancora male e ad alta voce di me.
Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse perderemo.
Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero.
Potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.
Potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci.E mai che mi sia venuto in mente,
di essere più ubriaco di voi
di essere molto più ubriaco di voi.

Recensione: Il paese delle Croci.

La prima recensione del 2020 riguarda un avvincente romanzo giallo, di recente pubblicazione.
Buon anno e buona lettura dalla Redazione.
Zar@

A cura di Pasqualina Traccis

Il paese delle croci, pubblicato da Emersioni a settembre 2019, è  l’ultimo libro di Gianfranco Cambosu, affermato autore di Nuoro che da anni coniuga la passione per la scrittura con la professione di docente di Lettere al Liceo.

Il romanzo, appartenente al genere giallo, è ambientato nel cuore della Sardegna, in Barbagia, come gran parte dei romanzi della sua illustre concittadina (e lontana parente) Grazia Deledda, unica donna italiana insignita del Premio Nobel per la Letteratura, nel 1927.

Il titolo riprende il nome del villaggio immaginario nel quale si svolge il racconto e ne richiama al tempo stesso il destino di morte e desolazione.

A Sas Ruches (letteralmente “Le croci”), il giovane siciliano Ercole Cassandra giunge nel ruolo di insegnante presso la scuola media, ma il suo vero proposito è indagare sulla misteriosa uccisione di suo padre, capitano dei carabinieri, avvenuta nel paese barbaricino quando lui era ancora bambino.

Il delitto si inscrive in un contesto sociale complesso e aspro, con leggi proprie e implacabili, intrecciandosi con un losco traffico di bronzetti nuragici, uno stupro di gruppo e il ruolo controverso di un’attempata maîtresse nuorese.

La storia, sospesa tra la ricostruzione di ciò che è accaduto e il progressivo delinearsi di ciò che potrebbe accadere, alimenta una suspense che tiene il lettore ancorato al libro dalla prima pagina all’ultima.

La narrazione intrigante è impreziosita da scrittura ricercata e icastica, per nulla scontata per un romanzo che si colloca tra il giallo e il noir.

Isola nell’isola e terra di misteri, la Barbagia descritta nel libro tra realtà e finzione, è matrice di un’umanità specifica e di inconsueto fascino, che difficilmente si può incontrare in altre parti del mondo.

Prova ne è il matriarcato che contraddistingue Sas Ruches, aspetto tra i più interessanti e originali del romanzo e chiave di lettura non secondaria delle vicende narrate.

Le donne, infatti, incarnano le contraddizioni più profonde e radicate della piccola comunità: il destino di violenza e morte e, insieme, la speranza di un cambiamento di prospettiva che apra a un domani migliore.

Come la tenace e sensuale quarantenne Gavina, sono capaci di portare sulle spalle il peso di una sofferenza indicibile, appena accennata nelle lacrime lavate via sul nascere con un gesto atavico di imperativa dignità.

Come le due allieve più diligenti del professor Cassandra, sono germogli di una rivoluzione culturale che nasce dal disperato bisogno di pace e futuro delle nuove leve.

Consapevoli del proprio ruolo sociale centrale, nel volto imperscrutabile e nel cuore risoluto, le donne del romanzo celano il desiderio di abbandonarsi alla propria fragile umanità, per farla prevalere definitivamente sull’odio e sulla morte.

Altra forza viva e sovversiva di una comunità prigioniera di se stessa e di un tempo in bilico tra passato e presente, sono gli alunni del professore siciliano.

Da buon insegnante, Gianfranco Cambosu sembra riporre proprio nei giovani e nella cultura, la speranza definitiva di riscatto di un’umanità straziata e persa. Affidando alle scintille che scoccano dai loro occhi, l’arduo compito di farsi fiaccole per rischiarare la notte profonda delle loro anime e delle nostre.

Scorrevole e coinvolgente, Il paese delle croci è un libro che consiglio agli appassionati del giallo e a chi ama le buone letture di qualsiasi genere letterario.

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Recensione: l’uomo duplicato, José Saramago.

A cura di Marica Sole

L’autore non ha certo bisogno di presentazioni: il meritatissimo premio Nobel per la letteratura, nel 1998, parla da solo.
Il libro in questione si intitola L’uomo duplicato, edito da Feltrinelli, come tutte le opere del grande scrittore, poeta e drammaturgo portoghese.

Già il titolo e la copertina incuriosiscono, portando a sceglierlo tra tanti libri scritti dallo stesso autore.

La trama è originale, come al solito, per certi versi geniale.
Il libro racconta la storia di Tertulliano Maximo Alfonso, un professore di storia della scuola media, che già nel nome sembra recare la garanzia di un’assoluta unicità. Al contrario, durante la visione di un film di second’ordine, il professore scopre che al mondo esiste un attore secondario che sembra essere la sua copia perfetta. Da quel preciso momento la sua vita non sarà più la stessa.

La scoperta lo trascina in un vortice di sentimenti e di comportamenti contrastanti che raggiungono il culmine dopo l’incontro con l’attore.

A partire da quell’incontro, due esistenze (fino ad allora) medie acquistano una piega morale lontana dal vivere inquieto ma regolare del professore di storia, che inoltre fa emergere l’atteggiamento doppio e spregiudicato dell’attore, conducendo ad un epilogo tragico e inatteso.

Al di là della trama originale e della scrittura di altissimo livello, il libro è una riflessione sull’individuo, sul suo diritto di prelazione sull’esistenza che deriva dalla certezza (o dall’illusione) della propria unicità. Saramago sembra porre un quesito di stampo platonico: e se fossimo solo copie? E copie di copie? Come reagiremmo a questa scoperta? Potremmo sopportare questa condizione di esseri senza un’identità definita e indivisibile?

Il vero odio verso il prossimo, sembra dire l’autore, non è quello nei confronti del diverso, ma quello nei confronti del simile, o meglio dell’uguale.

Persuasi di essere irripetibili, pensiamo di aver diritto al posto che occupiamo nel mondo e proviamo rancore verso chi è troppo simile  a noi, mettendo in discussione la nostra certezza di essere l’originale e non la copia (una volgare copia).

Il libro si presta anche ad una riflessione psicologica sugli egoismi umani, sulle bassezze morali alle quali possono condurre. E inoltre sull’amore,  come paura del fallimento e indecisione eterna, o come porto sicuro da cui prendere il largo, nell’illusione che l’amore resti là ad aspettarci.

Davvero bello, da leggere!

Il linguaggio degli schiavi: riflettiamo sui nostri tempi con Marcuse.

A cura di Zar@

Marcuse notava che nel parlare il suo proprio linguaggio, la gente parla sempre più il linguaggio degli agenti pubblicitari (in senso ampio), in altre parole dei suoi padroni (i quali a loro volta ne hanno altri e così via). Nel descrivere la realtà politica e sociale o i propri sentimenti, nel rappresentare preferenze e istinti, non esprimono solo (o più) se stessi, ma anche (e soprattutto) ciò che gli dicono i media, e questo si confonde con quanto pensano, vedono e sentono realmente, finendo per prevalere.

Questa cosa mi fa impazzire. Nel descriverci, nell’esprimere amore, odio, disgusto, piacere e dispiacere sempre più usiamo i termini della pubblicità, delle serie tv, dei bestsellers, dei social network. Usa questo linguaggio persino chi prende le distanze da tutto ciò. I critici letterari o presunti tali, per esempio, nel recensire e consigliare libri.

Un linguaggio che esprime e rafforza quell’universo di pensiero e di comportamento definito, quel sistema di controllo che (a parole, sia chiaro) vorrebbero soverchiare. Vero è che la schiavitù conviene a molti, compreso qualche ribelle prezzolato. Ogni tanto penso: dovrei prendere nota (principalmente tramite i social) e scrivere qualcosa che parli di questo, magari in modo ironico e allegorico, perché tutto il resto, tutto ciò che nel nostro mondo occidentale non va, ne è (in vari modi) conseguenza.

In questo stesso contesto si colloca l’ostilità dei più nei confronti della metafisica e della poesia. Peggio: l’indifferenza. Peggio ancora, per dirla sempre con Marcuse: la tolleranza. Un ritagliare delle “nicchie” in cui riconoscere un certo valore a queste stramberie linguistiche e concettuali, non riconducibili al linguaggio comune in quanto sublimanti, trascendenti, vaghe, assurde, contraddittorie, sconvenienti. Gli si riconosce valore in una dimensione semantica e assiologica separata. In questo modo si protegge l’universo normale di pensiero, sentimento e comportamento da ciò che può SERIAMENTE metterlo in discussione o turbarlo.

Il filosofo è un pazzo, un malato da guarire. La sua malattia è un linguaggio (dunque un sentire, un pensare e un essere) non conforme. Il poeta è un pazzo, un malato da guarire. La sua malattia è la stessa del filosofo. La loro malattia è una reazione al mondo malato in cui viviamo e una lotta per l’indipendenza. Le loro stranezze sono più razionali e vere della loro negazione, perché sono parole e concetti che esprimono le contraddizioni e gli inganni della razionalità oggi prevalente. La loro pazzia è lucidità. Il vero manicomio è questo mondo, chiosava ancora Marcuse in L’uomo a una dimensione.

Al poeta, diceva, spesso si rimprovera di non farsi capire: bella la poesia ma criptica, un esercizio di stile interessante che non si traduce in cose e comportamenti, a differenza del linguaggio comune, sempre operativo, che ha pervaso ogni ambito del vivere sociale e persino l’approccio alla cultura. Vogliamo capire i simboli e le immagini della poesia, tanto è vero che per sponsorizzarla la traduciamo nei termini del linguaggio (pubblicitario) comune. Il poeta condivide la sua poesia, dunque in un certo senso si augura che venga compresa. Il fatto è che ciò che dice non si può dire nei termini del linguaggio prevalente, omologato e omologante. Comprendere la sua poesia presuppone proprio la confutazione e il crollo di quell’universo di discorso e di comportamento in cui la si vorrebbe tradurre e con cui se ne fa pubblicità. O fa questo o non è poesia. Un po’ come non è filosofia.

I termini filosofici, precisava, devono essere diversi da quelli ordinari, perché l’universo di discorso stabilito porta in sé e riproduce il sistema di manipolazione e controllo a cui tutti siamo soggetti. Un sistema subdolo ed efficace che ha fatto della libertà, del confort e dello svago il suo principale strumento di controllo. Poeti e filosofi stessi, a un certo punto hanno iniziato a svendersi, nel cercare di normalizzarsi, in preda a un complesso di inferiorità che qualcuno ha spacciato per “presa di coscienza” o esigenza di aderenza alla realtà. Il primo talvolta si è scagliato contro il secondo. Il filosofo è uno che vola troppo alto, dice, che parla per pochi e di niente, lasciando tutto com’è. Il poeta invece si sporca le anime e le mani, dice le cose di quaggiù per come stanno, le denuncia e si autodenuncia, le vive, le cambia, le assolve. Poeti le cui opere sono cariche di metafisica si sono scagliati contro la metafisica. I filosofi a loro volta hanno preso le distanza dalle invenzioni, dalle parole evocatrici, come se fossero passati invano un Parmenide o un Platone, con pagine di un valore letterario non inferiore a quello di un Dostoevskij. A qualcosa ci si deve pur ribellare, quando si avverte la schiavitù senza avere la forza di liberarsi. Anche il filosofo si è adeguato al pensiero scientifico-tecnico dominante e ha rinunciato sempre più alla metafisica. Si è dedicato all’analisi del linguaggio, alla scienza, alla psiche e ad aspetti della società, limitandosi a “prendere atto”, muovendosi nell’universo di pensiero e linguaggio dato, di fenomeni nei confronti dei quali non esercita alcuna “forza negatrice”. Ci si è dispersi nel particolare e auto neutralizzati, intrappolati negli schemi che da dentro è impossibile vedere.

Il poeta si è vergognato di sublimare e il filosofo si è vergognato di trascendere. Ma sublimare e trascendere sono processi essenziali per poter comprendere e soprattutto per poter negare. Dunque hanno smesso di fare entrambe le cose ed eccoci qui. Eccoci, a vendere libri di Filosofia e di Poesia come si vendono le biografie dei calciatori e delle soubrette. A venderli dopo aver venduto queste (se avanza tempo e spazio) e con le stesse tecniche, lo stesso linguaggio. Ad ammirare poeti e filosofi come se fossero creature mitologiche, che non possono turbare il nostro sonno perché non esistono. E se un lieve turbamento ci assale, passa in fretta. Si torna spediti al like per il like.

Recensione: Cronache del rum di Hunter S. Thompson

A cura di Stella Corsi

Cronache del rum è uno scritto giovanile dell’inventore del “giornalismo gonzo”, Hunter Thompson, giornalista e romanziere americano molto apprezzato dalla critica per il suo stile irriverente e originale, secondo alcuni geniale.

In questo libro racconta la storia di un giovane giornalista, Paul Kemp, che si trasferisce per lavoro in Portorico, presso un giornale sgangherato portato avanti da personaggi coloriti e scapestrati, senza tante prospettive. 

Il giovane vede il proprio talento imprigionato in un lavoro e in una cittadina di secondo ordine e più volte matura l’idea di andarsene, di cambiare, di dare una svolta alla propria esistenza senza però riuscirvi.

I giorni scorrono tra baruffe, indecisioni fatali, sbronze colossali in bar malfamati, sesso occasionale e progetti abortiti di un futuro sfuggente, fino all’epilogo disperato e sospeso.

Il libro scorre abbastanza veloce. Ci sono pagine, personaggi  e passi interessanti, talvolta surreali e folli. 

I personaggi vivono situazioni caratteristiche dei luoghi descritti, concitate e paradossali, che coinvolgono il lettore e divertono offrendo al tempo stesso qualche spunto di riflessione.

Ciononostante non mancano pagine monotone, di cronache etiliche che si assomigliano l’un l’altra, che stancano un po’. Nel complesso è un romanzo piacevole che mette in scena una vita dissoluta e al tempo stesso senza speranza, in quanto chi la sposa sembra non essere in grado di vivere altrimenti.

Anche da questo, come da altri libri di Thompson, è stato tratto un film con Johnny Depp, nel 2008.

Aforismi

A cura di Redazione

Oggi vi proponiamo un aforisma della grande pittrice messicana Frida Kahlo. Donna straordinaria, creativa e profonda, che non ha mai nascosto la sua bisessualità. Il tema è proprio l’amore a tutto tondo.

Sono stata amata, amata, amata non abbastanza, ancora, perché non si ama mai abbastanza, poiché una vita non basta. E ho amato incessantemente. Nell’amore, nell’amicizia. Uomini, donne.

Frida Kahlo

Di notte

A cura di Zar@

Il buio cela l’inganno

Nel sogno mi spengo

Inciampo nei respiri

Di un dolce affanno.