Nella Giornata della donna, tante mimose, tanti auguri e sovrabbondanza di retorica. Al maschile e al femminile. Qualche manifestazione di quelle altrettanto retoriche, soliti slogan, solita inconcludenza.
Dovrebbe essere una giornata per fare il punto sui diritti delle donne nel lungo e tortuoso cammino di emancipazione. A giudicare dalle dediche sui social sembrerebbe piuttosto San Valentino. Auguri e dichiarazioni d’amore a parole, mentre nei fatti si continua a ricoprire un ruolo sociale di preminenza e, talvolta violenta, prevaricazione.
Cari uomini, le donne non hanno bisogno dei vostri auguri, ma di poter finalmente deporre le armi, di non dover lottare per dimostrare l’ovvio, il loro valore.
Di essere diverse e al tempo stesso pari a voi.
Certo, sarebbe bello se questa consapevolezza l’avessero in primis le donne. Anestetizzate dal consumismo, sono le prime a fraintendere questa giornata.
Auguri, dunque, di nuova o vecchia consapevolezza e di una fine non troppo lontana dell’inevitabile lotta. Lotta da condurre accanto agli uomini, quelli veri.
Vivo una vita che è la mia condanna. Sepolta nel mio mondo interiore come in un volontario isolamento.
Non sento il bisogno dell’altrui presenza e non la disdegno, sarebbe la mia salvezza – a dire il vero – ma non la cerco.
Io non ho alcuna pretesa di salvezza, del resto. Sarebbe già sufficiente non fare a pugni col mio tempo. Abbiate pietà di questo mio rifiuto della vita ha ragioni lontane e radici ben piantate.
Quando avevo 12 anni pensavo di essere un’adolescente come tante, con un buon quoziente intellettivo e qualche problema a stare al mondo, forse, a stringere amicizie e relazioni durature. Una di quelle anime introverse e strabordanti di fantasia e complessi esistenziali. Sofferenti per necessità e per gioco. Allegre per caso e a intervalli irregolari.
Mi son dovuta ricredere. Zara che si fa oggi? Si studia o si esce? Spegni quella musica e lascia spazio alla vita vera, quella fuori da scuola e da casa. Ester, mi senti?
La vita vera. Quella dei cortili bagnati, delle strade roventi per il sole di mezzogiorno, dei jeans a zampa di elefante e degli sguardi furtivi dei potenziali amori.
La vita delle compagnie cui non ho mai saputo appartenere. Il gruppo, per me, era un concetto astratto. Un contenuto immaginato. Un sentito dire.
Non sono mai stata adatta alla vita vera. Questo è.
Mi riprendo l’attimo, la vita presente, superando il torpore del ricordo della vita. Esco in strada, calma e vuota, per ripercorrere i passi smarriti di un cammino di libertà. Il confine e la fine di tutto.
Cosa sono oggi? Non ciò che ero ieri o avantieri. Certo qualcosa di nuovo o se non altro di diverso.
Un soffio di vento mi riporta il respiro di una mattinata invernale, di quelle ingannevoli, col sole abbagliante e l’aria frizzante che penetra ogni fessura del cappotto procurando la ferita di un brivido tagliente.
I pensieri, annebbiati dal contrasto metereologico, si dileguano e lasciano spazio a un’emozione familiare quanto indesiderata. L’ansia. Non un’ansia qualunque, la mia.
L’ansia mi accompagna, da sempre, mi tiene in vita, mi impedisce di disperdermi in un susseguirsi di pensieri e stati d’animo senza continuità. Matrice della mia autocoscienza, essa lega ogni battito, congiunge ogni sospiro, sogno o elucubrazione come un’attribuzione di senso. Il mio senso.
Àncora agli anni presenti passati e futuri la fenomenologia cangiante della mia anima.
Non ricordo fase, giorno o istante della mia esistenza senza l’ansia, nel profondo o in superficie. Come sfondo, sottofondo o colonna sonora spuria di un’essenza.
Le macchine vanno. Le macchine vengono. Il cielo si scurisce preparando una nuova entrata in scena del sole, prima timida poi imponente e spettacolare.
Un uomo e una donna mi passano accanto e procedono oltre. Lei si aggiusta il cappotto e commenta con un cenno del capo il lungo monologo del compagno, ad arginare con distacco e noncuranza un fiume in piena. Quest’ultimo stringe nervosamente il cellulare con una mano e con l’altra il braccio destro della donna. Sarà una questione di lavoro. Ha la tipica espressione e mimica di chi si agita per una questione di lavoro o un dissidio col capo. “Non so quanto resisterò ancora prima di dirgli chiaramente ciò che penso di lui…”
Non ho perduto l’abitudine di osservare le persone e immaginarne le storie.
È il mio modo di stare al mondo e tenermi compagnia.
L’unico modo in cui gli altri mi sono sopportabili.
“La prossima volta saremo felici” è il titolo, geniale, di una raccolta di racconti pubblicata da Galata Edizioni nel 2017, nella quale l’autore, senza affidare la narrazione alla trama compiuta e articolata di un romanzo, sceglie di frammentarla in una serie di “cortometraggi letterari”, che danno conto di una realtà resa variegata e multiforme dalle storie uniche e personali di ciascuno ma che allo stesso tempo è percorsa da un leitmotiv che la rende unitaria: la fragilità e la fatica dell’essere umani.
Così il dolore personale dei vari personaggi che si incrociano nelle pagine del libro assurge a dolore dell’umanità tutta, per chi ha il coraggio di guardarlo in faccia e dargli un nome.
La chiusa, bellissima e commovente, richiama come un’eco il titolo dell’opera e ne offre la chiave di lettura.
Sul piano del significante è l’epilogo ideale di una ricerca stilistica che fonde prosa e poesia fino alle pagine conclusive, in cui la scelta è rovesciata e la poesia si fonde con la prosa. Cioè la prosa lirica predominante diventa sul finale schiettamente poesia, ma a ben guardare lo stile resta il medesimo.
Le righe diventano versi ma hanno l’andamento della prosa e quasi ne mantengono anche l’aspetto grafico: i margini sono gli stessi, cambia solo il carattere col passaggio al corsivo.
I versi sono individuati dagli “a capo” ma sono liberi, sciolti e molto lunghi.
Il significante diventa a sua volta significato e forse ci suggerisce il rifiuto di un confine netto tra poesia e prosa, perché la vita stessa è allo stesso tempo prosa e poesia e rifiuta di fatto e nei fatti l’ideale perfezione alla quale gli uomini aspirano, per lo più celando a sé stessi gli aspetti più dolorosi, scomodi, inconfessabili e persino volgari dell’esistenza.
Cantautore, poeta e scrittore di notevole caratura intellettuale e artistica, Oliviero Malaspina è stato l’ultimo collaboratore di Fabrizio De André…
La musica è la cosmesi e il nutrimento dell’anima, incanto, respiro e sostentamento.
Forza vitale e bellezza.
Mi piace la musica italiana e internazionale, se buona s’intende.
Non seguo mode e tendenze, soprattutto quelle che spacciano per musica ciò che è poco meno di rumore.
Il nulla fatto canzone, dei generi musicali e dei cantanti più in voga, mi crea disagio. Imbarazzo.
Non permetto a nessuno di dettarmi il gusto.
Scelgo io cosa ascoltare e cosa respingere al mittente.
Oltre le imposizioni del mercato che sponsorizza il brutto e ciò che non ha valore, mentre censura di fatto le “cose buone e giuste” che ancora qualcuno spaccia, di nascosto dai media tradizionali e all’oscuro del grande pubblico.
Artisti veri e puri che lottano ogni giorno contro i mulini a vento per restare fedeli a se stessi e all’arte.
Prossimamente vi proporrò la mia personale Playlist su Spotify che aggiornerò costantemente.
Spero che vi piacerà!
I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.
Sei la terra e la morte. La tua stagione è il buio e il silenzio. Non vive cosa che più di te sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti sei soltanto dolore, l’hai negli occhi e nel sangue ma tu non senti. Vivi come vive una pietra, come la terra dura. E ti vestono sogni movimenti singulti che tu ignori. Il dolore come l’acqua di un lago trepida e ti circonda. Sono cerchi sull’acqua. Tu li lasci svanire. Sei la terra e la morte.
3 dicembre 1951
I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietà
Il festival del “di tutto un po’”, purché sia mediocre e facilmente smerciabile con un buon ritorno economico e poca spesa. Ormai sembra questa la logica della produzione musicale in Italia. Personalmente non considero il vincitore, giovane cantautore sardo-egiziano Mahmood, né migliore né peggiore degli altri che quest’anno hanno animato la kermesse musicale sanremese. Così come non ho trovato lo spettacolo in sé più noioso di altre annate. Ciò che mi ha stancato è l’ennesima conferma dell’imbarbarimento della canzone italiana, quella che passa nelle radio e in tv, figlia dei Talent e ancella di questo nuovo genere che fatico a definire musicale: il Trap.
Questa edizione di Sanremo tra l’altro ne sancisce la fusione e delinea chiaramente la già citata tendenza del mercato musicale attuale: massimo profitto con il minimo investimento e a scapito della qualità.
Culturalmente si tratta di una grande perdita per tutti.
Testi e sonorità trite e ritrite, banali e noiose, voci tutte uguali, come (ri)prodotte in serie, tematiche standard, nessuna emozione, nessuna vera novità.
La musica di qualità non c’è più? È morta? O viene semplicemente censurata dal mercato, con i suoi monopoli, finendo per non esistere più per nessuno? A noi consumatori la risposta.