L’angolo della poesia: Sebastiano Satta

A cura di Dora M.

Care amiche e cari amici, vi proponiamo una struggente poesia di Sebastiano Satta, autore poco noto al di fuori della sua straordinaria terra: la Sardegna.

Sebastiano Satta è stato un poeta, scrittore, giornalista e avvocato di grande talento e spessore, nato a Nuoro nel 1867 e morto nel 1914 nella stesso capoluogo sardo. Le sue opere raccontano le persone più umili e scavano in profondità cogliendo problemi, vizi e virtù del popolo barbaricino di quel periodo storico.

La poesia è dedicata alla figlia, tragicamente scomparsa quando era ancora bambina.

Sepulta Domus

Mi dicevan: — Fulano

È ricco, ha molti armenti,

Ha vigneti e fiorenti

Pomarî ai poggi e al piano.

È assai ricco Fulano!

Ed io cantavo nel mio cuor fedele:

Ah! più grande tesoro

Mi ho io nella mia casa:

Una figlietta, una bambina d’oro

Che raggia d’astri tutti i miei pensieri

bambinabambina!

Ed ecco tu sei morta.

Ed io non ho più nulla;

invidio ora il mendico

Che  nel cavo della mano al figlio

L’acqua delle fontane;

invidio anche il tapino

Che torna all’abituro senza pane

trova il figlio laceropiangente

Nella tenebraprivo

Di ogni cosa, ma vivo!

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.

L’amore ai tempi del colera: recensione

A cura di P. Traccis

L’amore ai tempi del colera non è un classico, ma uno sfrenato e travolgente inno alla vita. 

Si può attendere per 53 anni, 7 mesi e 11 giorni, di essere ricambiato dalla più bella ragazza del Caribe?

Quanti Florentino Ariza ci sono al mondo? E cosa li spinge a perseverare nel loro sentimento incrollabile, nonostante le minacce del padre, il rifiuto glaciale e repentino della ragazza, il suo matrimonio di buona società con il dottor Urbino?

Che cos’è l’amore e perché non basta a se stesso? Perché ha bisogno di un oggetto  che lo inveri?

Non saprei dire se Gabriel Garcia Marquez – autore che non ha bisogno di presentazioni – risponda a queste domande o le lasci in sospeso, in questo suo libro del 1985, edito da Oscar Moderni, nella traduzione di Angelo Morino.

La giovane Fermina Daza lo considera solo un’ombra,  ed è questo che Florentino diventa: l’ombra di un uomo che non è mai esistito.

E nell’ombra si ricama un destino degno della creatura dalla lunga treccia sulle spalle, che vede improvvisamente trasformarsi in dama. Pronto a conquistarsi uno spazio residuale nel suo cuore di vedova.

Signora e padrona di una dimora che assume le fattezze e la sostanza di una prigione dorata, Fermina intanto vive una lunga vita coniugale senza amore e senza libertà.

Non le mancheranno il denaro, il prestigio e la solidità di un buon investimento sociale. Le sarà concesso di  servire suo marito con dedizione, anticipandone i bisogni e rendendosi degna dei suoi sfizi. Potrà inoltre viaggiare in Europa, visitare Parigi, volare su una mongolfiera al di sopra del colera, che attanaglia la gente comune tingendola di un blu spettrale.

La signora Urbino non dovrà più preoccuparsi di niente, men che mai di essere felice.  Del resto il matrimonio non deve essere felice, ma garantire stabilità. 

Le sigarette fumate di nascosto in bagno sono quanto rimane del suo animo selvaggio e ribelle, fiaccole di un’ effimera libertà.

In tutto il tempo trascorso col dottore, nonostante il calvario matrimoniale e l’odore acre del tradimento, Fermina non immagina per sé un destino diverso e non pensa più a Florentino, se non con indifferente compassione. 

Il giovane che le scriveva lettere d’amore struggenti e ispirate, si trasforma da gracile poeta in direttore della compagnia di navigazione fluviale, ereditata dal facoltoso zio.

La sua posizione gli permette svariati amori di fortuna, assaporati con vorace e spregiudicata sensualità, senza però tradire Fermina, per la quale conserva nel profondo un amore vergine e dannatamente paziente.

Un sentimento che è una sfida al tempo, ai cui effetti cerca in ogni modo di sottrarsi con la cura ostinata e maniacale di sé. Un amore che si trasforma in una gara a chi, tra lui e il dottore, saprà conservarsi più a lungo in vita. Una gara di resistenza, vinta con la strana morte del suo concorrente (a una certa età la morte non ha il senso del ridicolo).

Finalmente Forentino Ariza potrà confessare, alla donna che desidera da tutta una vita, l’indomito proposito di amarla per i giorni che restano a entrambi.

Il sogno può realizzarsi, nonostante la reticenza iniziale della donna e la vecchiaia che ha rattrappito i corpi e sopito ogni slancio.

I due si incontrano laddove si erano persi, ovvero nelle lettere scambiate di nascosto, nelle quali si raccontano della vita, dell’amore e del non senso della felicità. La possibilità concreta dell’amore impossibile.

Fermina si ritrova inspiegabilmente ad accogliere quell’amore, trasformandolo in occasione di riscatto e di ritrovata libertà. Entrambi scoprono con un certo stupore che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.

Quella che spetta agli amanti tardivi è infine la vita scelta, così diversa da quella imposta dalle convenzioni sociali, dalla paura di amare oltre ogni ragionevolezza, convenienza o paura. Saltando l’arduo calvario della vita coniugale per andare dritti all’essenza dell’amore.

Il battello della libertà, con la bandiera del colera issata a protezione della loro felicità, li conduce avanti e indietro, insieme, in un lungo viaggio che somiglia alla speranza

Un libro che trabocca di poesia, nondimeno scorrevole e con perle di senso preziosissime. 

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Le intermittenze della morte di Saramago: Recensione.

Il nostro blog riparte con una proposta di lettura per palati raffinati. Un Nobel per la letteratura: scusate se è poco!

Zar@

Recensione a cura di P. Traccis

Le intermittenze della morte è un romanzo di fantasia che, alla maniera di José Saramago, parla di realtà e scava nel profondo dell’umanità tutta intera.


Allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre di un anno imprecisato, in un Paese innominato: nessuno muore più. L’eternità si abbatte come un meteorite sul capo delle persone e delle istituzioni con tutte le difficoltà del caso. «Quali difficoltà?», direte voi. La vostra obiezione è più che comprensibile. Di primo acchito la prospettiva di non morire somiglia a un dono, il più grande e straordinario che la vita potrebbe riservarci. Non è forse il sogno dell’umanità fin dai suoi albori? Ciò che spiega gran parte della nostra cultura, dando un senso alle religioni, alla filosofia, alla poesia e all’arte (non omnis moriar…).

Tuttavia la comunità descritta dal premio Nobel portoghese, prende coscienza abbastanza in fretta del paradosso che caratterizza l’esistenza umana: la morte è essenziale alla vita.

Il vivere per la morte è l’unico vivere autentico e persino il solo ad essere praticabile.


Governo, compagnie di assicurazione, chiesa, maphia e senso comune devono fare i conti con la morte sospesa come col peggiore degli incubi, e ognuno studia una soluzione che permetta di salvarguardarne i vantaggi minimizzando gli intoppi o magari di speculare su entrambi.

L’enorme turbamento, causato dall’eccezionale interruzione della legge di natura, svanisce quando una busta viola viene recapitata ai media perché il contenuto venga letto a reti unificate.

La lettera autografa è della morte in persona, la quale annuncia la ripresa della sua attività, ma con una novità nella procedura rispetto al passato: con cadenza regolare, ogni persona destinata a morire ne riceverà comunicazione una settimana prima, attraverso una busta viola recapitata a domicilio.

Lo sconquasso delle morti sospese lascia il posto allo sgomento degli sfortunati (o fortunati?) destinatari delle missive viola.

Da un lato questi ultimi avranno il tempo di congedarsi dalla vita e dagli affetti e magari di togliersi qualche sfizio, quel tempo che è sempre mancato o che ha presentato agli uomini un conto talvolta molto salato. Quale occasione migliore della morte certa, per alleggerire i rimorsi di coscienza in un confessionale? Per chiedere perdono o riappacificarsi con qualcuno. O per abbandonarsi senza remore alle pulsioni represse.

Dall’altro però si precipita anzitempo nell’angoscia del tempo scaduto e del mai più.

Fortuna o sfortuna, così è deciso.
La morte riprende la sua meticolosa routine dalla profondità di un giaciglio freddo e spoglio, con la sola compagnia di una falce ferruginosa e muta.
Come una regina, domina di nuovo sul mondo, invincibile. Tuttavia non può gioire di questa condizione né condividerne gli aspetti dolorosi perché non può provare né gioia né dolore e nessun’altra emozione o sentimento, compreso l’amore. La carne e il sangue di cui è priva, nel suo essere di spirito e di ossa, rappresentano l’unico scacco dell’essere umano nei confronti della nera signora. Uno scacco che è la vita stessa, ciò che manca alla morte e al tempo stesso le permette di porre fine a quella altrui.

A questo se ne aggiunge presto un altro, inatteso e incredibile: una delle buste viola, diretta ad un violoncellista di mezza età, continua a tornare indietro ogni volta che la morte ne dispone la spedizione, senza mai raggiungere il destinatario, al punto che quest’ultimo compie 50 anni mentre sarebbe dovuto morire a 49. L’affronto inaccettabile la induce a recarsi di persona dall’uomo che era sopravvissuto a se stesso, assumendo sembianze femminili per poterlo avvicinare.

La consegna della lettera si dimostrerà meno facile del previsto.

La fredda esecutrice del destino degli uomini finirà con lo specchiare la sua solitudine in quella dell’ignaro musicista e sperimenterà qualcosa di più forte della morte stessa.


Una storia originale, acuta e divertente, per certi versi commovente. Una scrittura creativa, ironica e pungente, a tratti virtuosistica, ma senza mai appesantire troppo il lettore. Libro piacevole e senz’altro capace di ispirare una riflessione profonda sul senso della vita e della morte.

Per saperne di più sull’autore del libro:

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Jos%C3%A9_Saramago

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.

Fuori dal tunnel

A cura di Zar@

Care lettrici e cari lettori del nostro amato blog, siamo tornati!

Sospesi nei nostri pensieri e desideri, per la pandemia che assorbe ogni concreta energia, ci siamo attardati un po’.

Sono stati mesi di sconquasso e riflessione, per noi come per tutti. Il nemico invisibile ci ha rubati alla nostra più grande passione: immaginare per essere. E scrivere di ciò che abbiamo immaginato.

Un nuovo modo di concepire il lavoro e l’esistenza ci ha obbligati a rivedere tempi e modi del nostro stare al mondo e del nostro raccontarci. Abbiamo disperato e sperato, pianto e riso per non piangere. Adesso guardiamo al domani con la fatica dell’oggi, il peso e la lezione dei mesi passati, tra lockdown e spensierata incoscienza estiva. Tra un’ondata e l’altra sentiamo di nuovo il bisogno di essere tra voi e, soprattutto, di essere noi. Anche questa è resistenza (non me ne vogliano i modaioli del linguaggio, ma odio l’abusatissima parola resilienza).

Da oggi si ricomincia: facciamoci compagnia! Salpiamo insieme, di nuovo e per la prima volta. La luna e le stelle ci guideranno.

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.

Incontro con la solitudine 5: racconto in progress.

A cura di Zar@

Al mondo, tra umani, si è di reciproca utilità. Se avete più di 15 anni, probabilmente avrete ampiamente raggiunto tale consapevolezza.

Ve la portate nel cuore o la esprimete ad ogni nuova delusione, sperando di sbagliarvi, certi di muovervi nell’alveo della verità.


Prendete l’attrazione sessuale, questa scintilla che scocca tra due persone che si incontrano e ne accende i destini. Se la cosa è reciproca ci si sente eletti dal cielo, come legati da un filo invisibile e indistruttibile. Finché dura. Finché la fiamma non si spegne e la luce non si fa fiocca.


Se invece la cosa è a senso unico, si produce una relazione squilibrata, in cui uno dei due detta le regole e l’altro si adegua. Lo sfortunato amante non corrisposto si spende e si spande per entrare nelle grazie dell’amato e si carica di continue illusioni che vanno incontro a frustrazioni sempre più amare. Il primo è utile e il secondo indispensabile. Entrambi giocano, ma lo sfortunato ha già perso. Ha perso tempo, spesso denaro, energie e soprattutto dignità. Ha perso se stesso dietro un rapporto che galleggia sull’abnegazione e sullo sfruttamento della debolezza altrui per scopi egoistici.


C’è l’amore, direte. Chi ama non usa, si dona. Si consegna anima e corpo nelle mani dell’altro e si aspetta da lui la stessa cosa.
Il problema è proprio questa indomita aspettativa. Scambio, anche in amore è la parole d’ordine.


Da quando la solitudine è diventata mia amica, non mi sono sentita più sola
Non mi sono sentita più usata. Niente più scambio, Do ut tu des, ipocrisia che si misura con il tempo secco in cui retrocedi nel dimenticatoio, quando nella vita altri si fa strada chi è più utile di te.


I rapporti tra potenti e lacchè, li riconoscete dalla costanza del like ad ogni loro post più o meno insulso. Che v’importa di me e delle altre anime semplici, delle persone inutili, se potete contare sul favore temporaneo e labile del potente di turno?
Ci archiviate, come le email di SPAM.
Diventiamo un turno da dover rispettare, ma il dovere stanca e porta alla fuga anche le persone più allenate al numero. Perché il numero conta. Un like è sempre un like e più sono meglio è. Un contatto è pure un contatto, non si sa mai quando possa tornare utile. Non si spreca nulla e un pollice in su non si nega a nessuno, come risposta standard e ultimativa delle conversazioni che pesano, che impegnano senza tornaconto.


Tuttavia, prima o poi, dal pollice in su si passa al silenzio, all’assenza prolungata. In fondo non siamo mai stati veri amici…


Colui che esercita un potere si prodiga in azioni le più rivoltanti e sterili e quasi sempre ignora quanti attendono da lui la grazia. Perché l’utile è anche il suo criterio e un like è solo un like. Un contatto è solo un contatto e se non è utile prima o poi diventa un peso.


È il mio lavoro, dice qualcuno. Devo pure mangiare…
Si vive di solo pane è inutile farsi illusioni. Lo spirito è un incidente di percorso, il riflesso temporaneo di una fiamma destinata a spegnersi, quella della passione. Oppure il giro di parole di chi non si arrende alla verità, ma volens o nolens la incarna. Al mondo si è reciprocamente utili o soli.

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.

Incontro con la solitudine 4: racconto in progress

A cura di Zar@

Ci si siede sul bordo di una vita, a contemplare se stessi e i propri insoluti. Ci si domanda dove e come ci si è smarriti e se un giorno sarà possibile incontrarsi di nuovo, con gli stessi grigiori negli occhi e le stesse vane speranze.

Io mi sono perduta per caso, come mi ero trovata. In un giorno di rose e liquore caldo, a primavera inoltrata, guardando un ambulante agitare il proprio coltellino svizzero di fronte al suo misero pasto. Una coltre di nebbia sottile e traslucida avvolgeva tutto e suggeriva una giornata storta, con il sole che cercava di insinuarsi tra il bianco vaporoso e la stanchezza dei pensieri.

Mancava un’ora al mio appuntamento con il destino, a me sembrava solo un inutile scorrere di tempo. L’ambulante schioccava le mani e digrignava i denti gialli, guardandosi intorno alla ricerca di acquirenti per le sue cianfrusaglie.

Non appena lo sguardo di un passante si posava su uno degli oggetti in bella mostra sul tappeto logoro, le sue labbra si increspavano in un tiepido e fugace sorriso, spento dall’affrettarsi dei passi in avanti, lontano dal suo spazio di vendita e di vita.

Non capivo come si potesse vivere di così poco, di speranze accese e subito spente, di chincaglieria e ammennicoli. Di strade intrecciate a vite superflue eppure indomite.

Il mio bisogno di silenzio contrastava con la routine cittadina delle persone e delle cose. Tenevo stretta la borsa a tracolla, aggrappandomi ad essa come all’ansia di perdere il treno. O di prenderlo. La decisione di partire era stata presa da giorni, ma il timore di non farcela era sempre più forte.

A quale approdo ero destinata, mi domandavo. Allora non sapevo che non mi sarei più sentita così sola in vita mia e che avrei rimpianto quella sensazione.

Gli artigli del mondo si sarebbero conficcati per sempre nella mia carne, rossa di sangue innocente e viva.

I diritti delle opere citate sono dei rispettivi proprietari.

21 anni senza Fabrizio De André, scomparso l’11 gennaio 1999.

A cura di Zar@

Faber è immortale, come lo sono i geni.

Tracciando un solco profondo nella storia della musica, ha seminato parole, note e profonda umanità, che hanno fatto germogliare quella bellezza ineguagliabile che per ognuno di noi è dono perenne e irrinunciabile.

Eppure sono passati 21 anni dalla perdita di questo grande artista, genovese per nascita e sardo per elezione.

Oggi vogliamo ricordare e ringraziare Fabrizio, per il suo sguardo puntuale e acuto sul mondo, così misericordioso nei riguardi degli ultimi, così implacabile verso i potenti e le loro angherie. Per il suo essere (tuttora) fuoco che illumina e scalda menti e cuori. Lungimirante come solo un classico sa essere.

Il nostro grazie arriva insieme alla nostalgia, con il testo di una canzone bellissima che tanto gli somiglia: Amico fragile.

Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte feritoie della notte
con un bisogno d’attenzione e d’amore
troppo, “Se mi vuoi bene piangi “
per essere corrisposti,
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo “Mi ricordo”:
per osservarvi affittare un chilo d’erba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e regalare a piene mani oceani
ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,
fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità:
perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.E poi sospeso dai vostri “Come sta”
meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,
tipo “Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”
“Lo sa che io ho perduto due figli”
“Signora lei è una donna piuttosto distratta.”
E ancora ucciso dalla vostra cortesia
nell’ora in cui un mio sogno
ballerina di seconda fila,
agitava per chissà quale avvenire
il suo presente di seni enormi
e il suo cesareo fresco,
pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci,
mi sentivo meno stanco di voi
ero molto meno stanco di voi.Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta
fino a vederle spalancarsi la bocca.
Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli
di parlare ancora male e ad alta voce di me.
Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse perderemo.
Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero.
Potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.
Potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci.E mai che mi sia venuto in mente,
di essere più ubriaco di voi
di essere molto più ubriaco di voi.

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Recensione: Il paese delle Croci.

La prima recensione del 2020 riguarda un avvincente romanzo giallo, di recente pubblicazione.
Buon anno e buona lettura dalla Redazione.
Zar@

A cura di Pasqualina Traccis

Il paese delle croci, pubblicato da Emersioni a settembre 2019, è  l’ultimo libro di Gianfranco Cambosu, affermato autore di Nuoro che da anni coniuga la passione per la scrittura con la professione di docente di Lettere al Liceo.

Il romanzo, appartenente al genere giallo, è ambientato nel cuore della Sardegna, in Barbagia, come gran parte dei romanzi della sua illustre concittadina (e lontana parente) Grazia Deledda, unica donna italiana insignita del Premio Nobel per la Letteratura, nel 1927.

Il titolo riprende il nome del villaggio immaginario nel quale si svolge il racconto e ne richiama al tempo stesso il destino di morte e desolazione.

A Sas Ruches (letteralmente “Le croci”), il giovane siciliano Ercole Cassandra giunge nel ruolo di insegnante presso la scuola media, ma il suo vero proposito è indagare sulla misteriosa uccisione di suo padre, capitano dei carabinieri, avvenuta nel paese barbaricino quando lui era ancora bambino.

Il delitto si inscrive in un contesto sociale complesso e aspro, con leggi proprie e implacabili, intrecciandosi con un losco traffico di bronzetti nuragici, uno stupro di gruppo e il ruolo controverso di un’attempata maîtresse nuorese.

La storia, sospesa tra la ricostruzione di ciò che è accaduto e il progressivo delinearsi di ciò che potrebbe accadere, alimenta una suspense che tiene il lettore ancorato al libro dalla prima pagina all’ultima.

La narrazione intrigante è impreziosita da scrittura ricercata e icastica, per nulla scontata per un romanzo che si colloca tra il giallo e il noir.

Isola nell’isola e terra di misteri, la Barbagia descritta nel libro tra realtà e finzione, è matrice di un’umanità specifica e di inconsueto fascino, che difficilmente si può incontrare in altre parti del mondo.

Prova ne è il matriarcato che contraddistingue Sas Ruches, aspetto tra i più interessanti e originali del romanzo e chiave di lettura non secondaria delle vicende narrate.

Le donne, infatti, incarnano le contraddizioni più profonde e radicate della piccola comunità: il destino di violenza e morte e, insieme, la speranza di un cambiamento di prospettiva che apra a un domani migliore.

Come la tenace e sensuale quarantenne Gavina, sono capaci di portare sulle spalle il peso di una sofferenza indicibile, appena accennata nelle lacrime lavate via sul nascere con un gesto atavico di imperativa dignità.

Come le due allieve più diligenti del professor Cassandra, sono germogli di una rivoluzione culturale che nasce dal disperato bisogno di pace e futuro delle nuove leve.

Consapevoli del proprio ruolo sociale centrale, nel volto imperscrutabile e nel cuore risoluto, le donne del romanzo celano il desiderio di abbandonarsi alla propria fragile umanità, per farla prevalere definitivamente sull’odio e sulla morte.

Altra forza viva e sovversiva di una comunità prigioniera di se stessa e di un tempo in bilico tra passato e presente, sono gli alunni del professore siciliano.

Da buon insegnante, Gianfranco Cambosu sembra riporre proprio nei giovani e nella cultura, la speranza definitiva di riscatto di un’umanità straziata e persa. Affidando alle scintille che scoccano dai loro occhi, l’arduo compito di farsi fiaccole per rischiarare la notte profonda delle loro anime e delle nostre.

Scorrevole e coinvolgente, Il paese delle croci è un libro che consiglio agli appassionati del giallo e a chi ama le buone letture di qualsiasi genere letterario.

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Recensione: l’uomo duplicato, José Saramago.

A cura di Marica Sole

L’autore non ha certo bisogno di presentazioni: il meritatissimo premio Nobel per la letteratura, nel 1998, parla da solo.
Il libro in questione si intitola L’uomo duplicato, edito da Feltrinelli, come tutte le opere del grande scrittore, poeta e drammaturgo portoghese.

Già il titolo e la copertina incuriosiscono, portando a sceglierlo tra tanti libri scritti dallo stesso autore.

La trama è originale, come al solito, per certi versi geniale.
Il libro racconta la storia di Tertulliano Maximo Alfonso, un professore di storia della scuola media, che già nel nome sembra recare la garanzia di un’assoluta unicità. Al contrario, durante la visione di un film di second’ordine, il professore scopre che al mondo esiste un attore secondario che sembra essere la sua copia perfetta. Da quel preciso momento la sua vita non sarà più la stessa.

La scoperta lo trascina in un vortice di sentimenti e di comportamenti contrastanti che raggiungono il culmine dopo l’incontro con l’attore.

A partire da quell’incontro, due esistenze (fino ad allora) medie acquistano una piega morale lontana dal vivere inquieto ma regolare del professore di storia, che inoltre fa emergere l’atteggiamento doppio e spregiudicato dell’attore, conducendo ad un epilogo tragico e inatteso.

Al di là della trama originale e della scrittura di altissimo livello, il libro è una riflessione sull’individuo, sul suo diritto di prelazione sull’esistenza che deriva dalla certezza (o dall’illusione) della propria unicità. Saramago sembra porre un quesito di stampo platonico: e se fossimo solo copie? E copie di copie? Come reagiremmo a questa scoperta? Potremmo sopportare questa condizione di esseri senza un’identità definita e indivisibile?

Il vero odio verso il prossimo, sembra dire l’autore, non è quello nei confronti del diverso, ma quello nei confronti del simile, o meglio dell’uguale.

Persuasi di essere irripetibili, pensiamo di aver diritto al posto che occupiamo nel mondo e proviamo rancore verso chi è troppo simile  a noi, mettendo in discussione la nostra certezza di essere l’originale e non la copia (una volgare copia).

Il libro si presta anche ad una riflessione psicologica sugli egoismi umani, sulle bassezze morali alle quali possono condurre. E inoltre sull’amore,  come paura del fallimento e indecisione eterna, o come porto sicuro da cui prendere il largo, nell’illusione che l’amore resti là ad aspettarci.

Davvero bello, da leggere!

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