Per una nuova Epifania

A cura di Giorgia Soi

Eccoci, il tanto temuto e atteso 6 gennaio è giunto. Le feste sono finite, finalmente e purtroppo. Per qualcuno questo significa ritorno a scuola, per altri al lavoro, per molti solo un fastidio in meno o in più.

Alberi e statuine del presepe ritornano alle loro scatole anonime e grigie, in atessa di un nuovo Natale, di nuova gioia di vivere e voglia di fare festa. Di rinnovata malinconia e noia festiva.

Personalmente la mia festa preferita è l’Epifania. La festa della fine o, meglio, del compimento. Del fine ultimo delle festività natalizie: il manifestarsi al mondo della divinità, del Sacro, il cogliere la grandezza nella piccolezza, come ci ha ricordato il Papa.

Di farci grandi siamo capaci tutti, complici gli artefici dell’era cibernetica, ma quanti sono in grado di farsi piccoli? L’ombra è la prova schiacciante della presenza della luce, ma quanti di noi sanno farsi prova di luce interiore?

Il protagonismo di questi tempi, in cui persino un taglio di capelli viene mandato in onda per i propri fan, come un evento imperdibile, mi spinege a riflettere sull’Epifania, quella vera. La tenerezza e lo stupore di un bambino indifeso, in una mangiatoia. La luce interiore dell’innocenza in un mondo colpevole. Di disprezzo per la vita e di indifferenza per l’altro da sé. Guerre, povertà e odio sono il segno tangibile della colpa.

Non essere luce e nemmeno ombra, essere solo un riflesso, un esile riverbero di luccicanze fasulle, questo è il destino della contemporanea umanità.

Apparire senza manifestarsi, a se stessi e a gli altri, per ciò che si è realmente. Questa esistenza inautentica esigerebbe una nuova epifania. È con questo auspicio che la nostra redazione vi augura ancora buon anno e riprende la propria attività. Che ognuno di noi possa concedere al Sacro una parte di sé…

Se Natale non è tenerezza e speranza

Redazione

Amiche e amici,

Ci siamo presi una piccola pausa, per ritornare al più presto con tante novità. Abbiamo tutti bisogno di una vacanza, dai ragazzi delle scuole agli adulti prigionieri della routine lavorativa e familiare.

Natale è vacanza, magia e svago, regali e scambio di auguri, abbondanza culinaria e pensieri di pace. Il consumismo la fa da padrone, ma questa festa ha anche il potere di accendere la speranza, la tenerezza, il bisogno di essere migliori.

Se mancano questi ingredienti non è Natale. E allora che sia Natale per tutti, il nostro augurio più caloroso possa scaldare il cuore di ogni nostro affezionato lettore, per una ricarica di speranza e dolcezza, di cui tutti sentiamo il bisogno in questi tempi non facili. Che possa accendersi una nuova luce.

Buone feste a tutti, con tanto affetto. Ci leggiamo presto!

Delle donne e degli uomini, oltre la censura del politicamente corretto, per un mondo di tutti

Redazione

Non si può dire che le donne si devono emancipare e devono essere finalmente alla pari con gli uomini e poi non agire, ognuno nel proprio piccolo, in questa direzione. Il dominio ha molte facce e sfumature. Fisico, psicologico, economico, sociale, culturale. Si alimenta di stereotipi, assenze grammaticali, ma soprattutto di opportunità mancanti. Non so se agire sulle prime due possa accelerare il superamento della terza grave insufficienza di una società ancora maschilista. So che snaturarsi per adattarsi all’uomo non è una buona idea, perché una copia è al massimo una buona imitazione, ma manca di autenticità e prima o poi viene smascherata. Di fatto ci si trova ad essere ancor di più al servizio dell’uomo, in nome di una eguale libertà, funzionale al suo dominio economico, sociale, culturale e fisico.
Chi non ti vuole prostituta non ti vuole libera. Chi ti vuole prostituta ti considera (sua) schiava. Oggetto, non soggetto di piacere. È lui che sceglie, tu vieni scelta, scegli di essere scelta, come un qualsiasi bene di consumo, con un prezzo. Tu non presti un servizio, lo sei. Sei servizio. Sei al servizio, come sempre.

Vero è che qualche passo in avanti va fatto, anche qualche passo falso, ma bisogna progredire. Occorre cambiare, riorientare la visione altrui e nostra della donna.

Leggevo che il ciclo rappresenta un problema per la donna, solo perché la società, dunque l’uomo, la obbliga alla linearità, a procedere dritta con impegni e oneri, non tenendo conto delle sue esigenze. Le aspettative sono nei suoi confronti le stesse che valgono per gli uomini e questo non è né giusto né inclusivo. Un mondo diverso è possibile? Deve essere a misura di donna per essere inclusivo e giusto? È giusto un mondo a che sia misura di alcuni e non di tutti? Est modus in rebus, occorre trovare un equilibrio tra le diverse esigenze e per farlo occorre sottolineare le differenze, non fingere che non esistano.

La parità nella diversità presuppone il riconoscimento della diversità e la sua valorizzazione.

Tuttavia oggi la diversità è diventata tabù o diktat stravagante, commerciale. In entrambi i casi va nascosta nella sua sostanza ed esibita, ostentata, nella forma. In altre parole la diversità oggi viene normalizzata perché possa essere accettata e per certi versi monetizzata. Ecco perché per designarla si usano suoni morbidi, sigle, inglesismi che la rendano glamour. Ecco perché ci si inventa una nuova normalità che stia a monte delle differenze. La pretesa di una neutralità che scansa o rinvia ogni differenziazione è la nuova discriminazione nei riguardi del diverso, un odio malcelato verso ciò che è naturalmente e incontrollabilmente differente. Oggettivamente.


Questa ossessione per il politicamente corretto più che censura è paura del diverso. Terrore di doverlo riconoscere per ciò che è. Bisogno di vederlo per ciò che non è per poterlo riconoscere e accogliere.

Le donne devono diventare uomini per poter affrontare il mondo o il mondo deve adattarsi alle donne perché si raggiunga l’agognata e sacrosanta parità? Entrambe le cose mi sembravano impossibili, ammesso che siano opportune.


La mia impressione è che si perda sempre più il senso della realtà.

Si dimenticano le questioni sostanziali, di diversa eguaglianza, prima di tutto economica e sociale, per inseguire quelle formali o immaginarie. Si pretende che tutti si viva una gigantesca farsa, in cui la realtà si perde a vantaggio dell’interpretazione, la si chiama inclusione, ma è solo una delle tante parole vuote con cui si pretende di cambiare il mondo lasciandolo esattamente com’è.

Giusto sensibilizzare, doveroso lottare, indispensabile educare e rieducare, ma senza dimenticare che, alla fine del processo, dobbiamo essere ancora tutti sani di mente e soprattutto tutti liberi. Un amore assoluto e incondizionato per la verità potrà giovare, mentre si punta dritte alla meta delle pari opportunità. Per un mondo che non sia delle donne o degli uomini, ma di tutti.

Socialnoia

A cura di Anna S.

Instagram, Facebook, Twitter. Tik Tok no, sono troppo anziana per questo e mi resta un po’ di dignità.

Social sì social no, il grande dilemma. Sbaglia chi se ne tiene alla larga? La domanda vera è come ci riesca.

Sono così accattivanti, nella loro promessa di notorietà, nelle dosi quotidiane di gossip, nell’illusione dell’amicizia universale. Come esimersi dall’apparire. Colta, sexy, bella, ironica, esperta, buona, cattiva, informata, fluida, glamour, sei ciò che vuoi essere o meglio ciò che devi essere per colpire, piacere, maturare consenso, ottenere visibilità.

Ti sei riempita di filtri e l’hai sparata nel modo consueto, solito, collaudato, da manuale della perfetta nullità.

Col tempo ci prendi la mano e diventi una professionista del sociale, della civiltà e dell’inciviltà. Capita anche che ti svegli una mattina e ti ritrovi influencer, con migliaia di follower. Migliaia! Che avrai mai fatto di tanto speciale da meritare tanta attenzione?

Banalità scintillanti, tette in vista e finta trasgressione: il gioco è fatto.

In alternativa puoi buttarla sull’ironia, macinare meme, scopiazzare stili di risata. L’intellettuale, anche quello ha un suo perché e fascino. Avanti signori! C’è spazio per tutti.

Ogni giornata è speciale, nei social, anzi internazionale. Oggi i cani, domani le donne, dopodomani il salto in alto. Si celebra, tutti insieme e lontani anni luce l’uno dall’altro, l’inconsistenza di massa targata 2022. Quasi 2023.

Sapete che vi dico? Mi sono stancata di ogni persona, post, news che vedo nei social network. Ripetitivo, finto, gravitante intorno ai soliti temi, impastato di rituali collettivi, tristemente omologante. La direzione è una e una sola: il nichilismo. Annientare ogni difesa contro la barbarie del vivere per consumare.

Che barba che noia, diceva la simpatica Sandra Mondaini. Lo dico anch’io, mentre scorro le notizie in bacheca.

Autunno in poesia

A cura di Zar@

Amiche e amici, oggi diamo spazio alle poesie, giunte numerose in redazione negli ultimi mesi. Pibblichiamo quella che più ci ha colpito, dopo lunga e attenta cernita. Continuate a scriverci, i tempi si fanno duri e l’autunno va affrontato in spirito di bellezza. A presto!

Il nostro tremare

Cercami se mi pensi

non considerarmi perduta 

solo perché non possiamo averci,

io ti porto nella mente come un tarlo

principio e fine di ogni sbaglio.

Dentro al tuo respiro  l’ansimare 

del cuore che fatica a trovarsi.

Ogni parola è come pioggia d’aprile

che vale più del carro d’oro del re Basile

che spegne il pianto,

mentre sale la paura di tradirmi 

per ciò che ti vorrei dire.

Non c’è inganno nel mio mentire

solo amore santo e giusto patire

Il valzer delle foglie

delle voglie 

Una libertà senza odori

L’autunno in catene e la luna

di fuori.

Mariposa

Una vita in prosa

A cura di Zar@

Sempre caro mi fu…

Leopardi sono stata innamorata di te, a 15 anni, quando tutti dicevano che eri il classico bruttarello intelligente, un po’ asociale e represso. Quando tutti ti definivano un pessimista cosmico. Io ti leggevo e immaginavo di baciarti sulle labbra, sognando di meritare una tua poesia, anche solo qualche verso.

Le amiche desideravano cantanti, calciatori, attori vivi e morti, facce da poster e corpi da Cioè. Io desideravo Giacomo Leopardi. Pensavo che saremmo stati una bella coppia, io bella e lui geniale.

La realtà è stata meno benevola.

Ho conosciuto un solo poeta nella mia vita, arrogante e nevrotico, oltre modo narciso e soprattutto privo di qualsiasi interesse per la sottoscritta. In alcuni momenti ho pensato di odiarlo. Per fortuna il passato è passato. E poi, parliamoci chiaro, non era Leopardi. Non aveva il suo genio e il fascino disperato. Era un discreto paroliere e niente più.

Al di là di tutto è chiara una cosa: non è destino che ispiri poesia! La mia vita è pura prosa. E naufragar m’è dolce in questo mare.

Illudersi e guarire

A cura di Zar@

Dicono che scrivere è mettersi in viaggio verso la guarigione. Sono abbastanza d’accordo. La malattia è la cosa meglio distribuita al mondo, ognuno di noi ha ferite aperte e cicatrici a ricordare quelle chiuse.

Alcune cicatrici si reinfettano, quando meno te lo aspetti. Hai appena abbassato la guardia ed ecco che la sorte ti dimostra che hai fatto molto male.

Per esempio spesso mi illudo di avere degli amici, persone su cui contare, che mi vogliono bene e che si preoccupano per me. Anche quando mi arrivano segnali contrastanti, trovo un appiglio per assolverli e pensare ancora di essere amata. È questa la mia malattia.

Quando una persona si dimostra scostante e indifferente una volta, due e tre, significa che devi cancellarla dalla lista immaginaria delle tue amicizie. Non ci sono santi.

Non so se a voi capita di voler vedere ciò che non c’è. A me capita: vedo amici da tutte le parti e al momento del bisogno mi ritrovo immancabilmente sola.

Li chiamano narcisi, persone con un ego senza confini, che anche quando sembrano apprezzare gli altri, in realtà stanno pensando a come usarli. Persone incapaci di restare accanto ad altre, per cui l’amico buono è quello ultimo e nessuno è più buono di loro stessi.

Persone alla continua ricerca del nuovo perché non hanno niente da dare e tutto da prendere.

Quando incontrano un vero amico ne riconoscono la qualità intrinseca, ma dopo un po’ ripartono perché non sanno restare. Si annoiano. Sapessero quanto sono noiosi loro!

Vi racconterò di quando mi ritrovai ad affrontare una brutta malattia e tutti fecero il vuoto intorno a me. Che novità, si dirà. Eppure non me lo aspettavo, non da tutti, ero assolutamente certa che qualcuno tenesse realmente a me e che mi sarebbe stato vicino nel momento del bisogno.

Le certezze sono la vera illusione. L’illusione è la vera malattia.

Scriverò dunque di quei giorni e delle ferite incurabili, del male senza riposo, della rinascita attesa e sfinita.

Spero sia di aiuto per qualcuno o di consolazione.

Il segreto di Chimneys: recensione.

A cura di Zar@

Spazio al giallo, cari amici e care amiche. D’estate è una delle letture preferite dai vacanzieri, così come gli altri generi affini. Leggero, appassionante, senza troppe pretese, al tempo stesso può essere d’autore, come in questo caso in cui proponiamo la recensione di un classico. Il libro infatti è stato scritto dalla regina del giallo Agatha Christie.

La storia si ambienta nel castello di Chimneys, in Inghilterra. Un luogo di ritrovo per persone importanti che hanno un ruolo nell’economia e nella politica e che spesso lo usano per concludere affari e trattati internazionali.

Mentre un giovane avventuriero inglese proveniente dall’Africa viene incaricato di portare a termine una missione, consegnare delle lettere alla legittima proprietaria e lo scottante maniscritto conenente le memorie di un principe ad una casa editrice, nel castello si compie l’omicidio di un nobile balcanico, successore al trono del principato di Herzslovakia.

L’omicidio è avvolto nel mistero, che via via si infittisce, coinvolgendo il giovane avventuriero che viaggia sotto falso nome, l’affascinante nobildonna Virginia Ravel, l’enigmatico collezionista americano e la polizia internazionale.

Cosa c’è dietro l’omicidio? In che modo si collega alla fantasmagorica figura del ladro di gioielli soprannominato Re Victor? La storia, avvincente e con un finale sorprendente che è difficile aspettarsi o intuire, impegna il lettore nell’investigazione dall’inizio alla conclusione in perfetto stile Agatha Cristie.

Non è uno dei suoi migliori gialli, ma si tratta sempre di una lettura piacevole da fare sotto l’ombrellone.

La vita e le opere di Francesca Mereu, giornalista e scrittrice dalla parte dei più deboli

A cura di Pasqualina Traccis

Eikasia ha ospitato le recensioni di diverse opere della giornalista e scrittrice sardo-russo-americana Francesca Mereu, recentemente scomparsa, all’età di 57 anni. Il nostro blog ne ricorda la figura e le opere attraverso l’analisi di una delle nostre penne più lucide e raffinate.

credit: Roger Stephenson Photography

Francesca Mereu, giornalista internazionale e scrittrice, nasce nel 1965 a Irgoli, in Sardegna, da una famiglia di artigiani. Quando dal Messico giunge la notizia della sua prematura scomparsa, nella casa natale c’è solo la madre Mariantonia Traccis, che tutti in paese chiamano Potoi. Suo padre Antonino è morto vent’anni prima.

Francesca amava la sua terra e il suo mare, le splendide spiagge, cale e pinete del Golfo di Orosei e come sempre si preparava a farvi ritorno per le vacanze estive, sebbene la Sardegna l’avesse lasciata molto presto, per laurearsi in Lingue a Firenze, approfondendo lo studio della lingua russa e inglese.

Nei primi anni Novanta, Francesca si trasferisce in Russia, dove lavora come giornalista e conosce il fisico Sergey Vassiliev, che diventerà suo marito. Vent’anni dopo si sposta in Alabama, negli USA, per seguire il marito scienziato. Prima del trasferimento oltreoceano, Sergey aveva ottenuto un incarico universitario a Düsseldorf, in Germania, dove la coppia trascorre due anni.

Pur essendo poliglotta e forse proprio per questo, quando rientrava nella sua isola, Francesca Mereu parlava principalmente il sardo, la sua lingua, nella consapevolezza che nelle parole ci sono le radici e che solo un albero con radici ben piantate può raggiungere le vette più alte.

Questa stessa consapevolezza, unita alla curiosità per la realtà altra da sé, ne faceva una giornalista e un’autrice, più che internazionale, cosmopolita.

Francesca, che viaggiava spesso e aveva nell’India una delle mete preferite, abitava il mondo con la passione per la vita propria della vera scrittrice.

Amava i luoghi e la gente, di cui raccontava la storia e la cultura per averle entrambe vissute, in modo puntuale e nel contempo partecipato. I suoi libri spaziano dalla cronaca giornalistica al viaggio emozionale, rigoroso e documentato, del romanzo storico, fino al pathos dell’opera teatrale.

Francesca Mereu aveva iniziato la carriera di giornalista come corrispondente da Mosca e dalle Nazioni Unite per la radio americana Radio Free Europe/Radio Liberty, trascorrendo inoltre sei anni al The Moscow Times, per il quale si era occupata di giornalismo investigativo, coprendo la politica interna e i servizi di sicurezza russi. I colleghi di allora la ricordano con affetto per la “straordinaria personalità e le doti professionali“. I suoi reportage da Mosca sono stati pubblicati dall’International Herald Tribune, dal The New York Times e da numerosi giornali italiani.

Nel 2011 aveva esordito come scrittrice, pubblicando il suo primo libro L’Amico Putin. L’invenzione della dittatura democratica (per Aliberti Editore) e nel 2018 aveva replicato conIl Grande Saccheggio (per Le Mezzelane Casa editrice), dedicato alla difficile transizione della Russia dal Comunismo al Capitalismo, durante la quale erano emersi gli Oligarchi, nelle cui mani si era concentrata gran parte dei beni dell’URSS, smembrata e precipitata nel caos economico-sociale e nell’instabilità politica. L’autrice racconta come questi ultimi, in accordo con il KGB (divenuto FSB), avevano deciso di affidare le sorti proprie e dell’intero Paese al giovane, sconosciuto e apparentemente innocuo, uomo dei servizi segreti: Vladimir Putin.

A marzo del 2022, arriva in libreria anche il suo Putin. Dentro i segreti dell’uomo venuto dal buio. Da San Pietroburgo all’Ucraina (Aliberti Editore), presentato all’ultima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il libro approfondisce la figura dell’uomo del momento, con interessanti aggiornamenti riguardanti la guerra in corso e la comunicazione datane dal Cremlino, che Francesca seguiva con attenzione viva, date anche le radici russe e ucraine del marito. Non a caso aveva deciso di devolvere il ricavato dalla vendita del libro alla popolazione ucraina.

La Mereu è stata anche autrice di libri ambientati nel profondo sud degli Stati Uniti, come Quando mi chiameranno uomo?, pubblicato nel 2018 (Le Mezzelane Casa Editrice) e di diverse opere teatrali, due delle quali sono state pubblicate nell’aprile del 2016 nel libro Profondo Sud (Edizioni Tripla E). Opere dedicate alla nascita del Blues, nel contesto delle lotte per i diritti degli afroamericani.

Quello per il blues, da parte di Francesca, era un amore viscerale, che l’aveva portata a scriverne anche per importanti riviste italiane come Il Blues e Il Giornale della Musica, oltre che a realizzare svariati podcast per il suo blog.

A voler ricercare un fil rouge nelle sue pubblicazioni, lo si potrebbe forse individuare nella difesa dei diritti umani, sempre dalla parte di coloro che sono oppressi da dittature, ingiustizie e discriminazioni.

Nel suo primo libro, la scrittrice illustra la figura del “dittatore democratico” Vladimir Putin, ricostruendo la storia del suo avvento al potere e descrivendo i metodi violenti e le tecniche di propaganda che gli hanno permesso di restare al potere, depotenziando l’opposizione, eliminando ogni voce di dissenso e creando l’ampio consenso dell’opinione pubblica nei riguardi della sua persona, che rappresenta uno dei punti di forza della sua presidenza.

Scrive Mereu: «Sotto Putin televisione e giornali hanno imparato a captare molto bene gli umori del potere e sanno per esempio che cercare il motivo per cui un reporter è stato ucciso non è cosa gradita al Cremlino».

L’autrice si spinge oltre, nel suo ultimo libro, facendo nomi e cognomi, in un lungo quanto triste elenco dei giornalisti che in qualche modo hanno rappresentato delle voci scomode per il Cremlino e che hanno perso la vita in “circostanze misteriose”, ufficialmente sganciate dalla loro professione. Tra questi c’è anche la Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta nota per i suoi reportage sulla guerra in Cecenia, ritrovata morta nell’ascensore del suo palazzo a Mosca il 7 ottobre 2006.

Francesca Mereu aveva avuto occasione di intervistare tanti giornalisti russi sulla questione della libertà di stampa, argomento che le stava particolarmente a cuore, denunciando fino all’ultimo la censura e la repressione nei riguardi dei mezzi di informazione non allineati.

Al di là delle vicende storiche della Russia post comunista, l’aspetto più interessante delle sue opere è forse rappresentato dal racconto delle persone. Francesca racconta un’umanità sopraffatta dal trapasso, improvviso e violento, dal vecchio al nuovo sistema economico, sociale e politico.

I veri protagonisti sono la sua nuova famiglia: i genitori di Sergey, il nonno Ded Borya e la nonna ucraina; Marina, la docente che per mantenersi lavora part time come cuoca per una ricca ditta privata; gli anziani disperati che inveiscono contro la cassiera del supermercato perché i prezzi sono diventati troppo alti per la loro misera pensione; la signora che chiede alla commessa di toccare la confezione rossa dei Ritz, accettando con imbarazzo i rubli della giornalista che vuole toglierle lo sfizio dei cracker occidentali; i colleghi giornalisti imbavagliati dal potere.

Con l’implosione del blocco sovietico, la Russia aveva perso il proprio ruolo di potenza egemone ed era precipitata nel caos. A traghettarla fuori dalla crisi sarebbero stati gli oligarchi, il colossale affare del gas e il loro uomo di fiducia Putin, il quale per tanti diventa il simbolo del ritrovato peso internazionale del proprio Paese.

Yeltsin aveva promesso che nella Russia in fase di ricostruzione ci sarebbero stati “milioni di proprietari e non una manciata di milionari” con la garanzia di pari opportunità per tutti.
In realtà i russi vengono improvvisamente travolti da un capitalismo senza regole, fatto di termini incomprensibili ai più (come azioni, quotazioni, assets, mercato, borsa) e di speculazioni economiche e finanziarie. Nel contempo si definisce un quadro di dilagante illegalità, con il sorgere delle organizzazioni malavitose, sul modello italiano arrivato in Russia con film come Il padrino. Il libro spiega come questo cambiamento epocale abbia concentrato il potere economico nelle mani di pochi, destabilizzando e impoverendo le masse, predisponendo la società a guardare con favore all’uomo della Provvidenza.

A lasciare il segno nel lettore è lo scandaglio delle anime che attraversano questo complesso momento storico, con i suoi strascichi fino ai giorni nostri.

Lo stesso sguardo dal basso si coglie anche in relazione all’altro tema caro all’autrice: il lungo calvario degli afroamericani dalla schiavitù alla segregazione, alla criminalizzazione attuale.

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Quando mi chiameranno uomo? solleva, fin dal titolo, una serie di interrogativi: quanto è lungo il cammino verso la libertà e l’eguaglianza? Di quali atroci e insensate sofferenze è lastricato? Quando sarà che un uomo potrà essere chiamato semplicemente uomo, senza ulteriori e inutili specificazioni legate al colore della pelle o alla condizione sociale?

Il racconto si snoda lungo le strade e le città del profondo sud americano, tra queste Birmingham, in Alabama, città che aveva adottato Francesca Mereu, definita da Martin Luther King come “la più segregata d’America”. Si distribuisce nelle testimonianze di persone che hanno ereditato e tuttora vivono nel quotidiano una condizione di “diversa eguaglianza”.

Quelle narrate sono storie personali che si intersecano, ancora una volta, con la storia generale di una minoranza oppressa e martoriata, ancorché mai sconfitta. Raccontano di anime capaci di lotta e sublimazione della sofferenza nella magia del blues, genere musicale da cui Francesca era rimasta da subito folgorata. La giornalista ha intervistato alcuni tra i più grandi bluesman afroamericani, come Bobby Rush, il quale aveva ricordato come quel ritmo conquistò l’America e il mondo, dando origine al rock and roll.

Quest’ultimo era nato dal proposito commerciale di “riconfezionare e ripulire la musica nera per renderla adatta all’audience bianca”. Mereu spiega come il nuovo genere si sia appropriato della musica nera, spesso “dimenticandosi di citare gli autori e di pagare i diritti”. Ad esempio, artisti come i Rolling Stones dovevano tutto a Muddy Waters, rimasto per tutta la vita un umile imbianchino a fronte del successo internazionale della band. L’amore per il blues portava l’autrice, membra della Magic City Society di Birmingham, a frequentare assiduamente i locali in cui questa musica ancora oggi prende vita, oltre che a ospitare nella propria casa le esibizioni di vari bluesman.

Le vicende degli afroamericani sono raccontate in modo lineare, appassionante e onesto, senza celare al lettore gli aspetti più controversi, duri e scabrosi di una storia che contrasta con il sogno americano. Esso palesa infatti lo scandalo dell’ineguaglianza e della violenta sopraffazione nel Paese dell’opulenza, del modernismo e delle libertà.

Le parole dei protagonisti sono lacrime di umanità in un contesto di ingiustizia e disumana negazione di umanità, che ha origine nell’America schiavista, in cui nonna Marghareth «raccoglieva il cotone e componeva blues», nascondendo in fondo all’anima «il ritmo d’Africa che i genitori le avevano insegnato» che rappresentava «l’unica cosa che il padrone bianco non era riuscito a portarle via».
Nella narrazione dei discendenti degli africani deportati come schiavi nelle piantagioni americane, si ravviva il ricordo delle storiche marce sotto la guida del dott. King contro la segregazione razziale, dopo la fine della schiavitù.

Ci sono le infinite battaglie che hanno portato a vittorie effimere, a continue ridefinizioni dell’odio e delle modalità di discriminazione e separazione, testimoniate ancora oggi dalla cronaca nella disparità di trattamento da parte delle forze di polizia e della Giustizia americana.

Gli stessi temi sono presenti nelle opere teatrali di Francesca, che uniscono la lucidità delle parole alla potenza della musica in un effetto altamente emozionale. Con i suoni tristi e taglienti del blues a lenire la pena, a ritmare le vite di coloro che ancora, nella denuncia forte dell’autrice, aspettano di essere considerati semplicemente e pienamente uomini.

Questa denuncia, insieme alla luminosità di un sorriso che conquistava tutti, è l’impronta profonda lasciata dall’autrice che ha voluto raccontare la storia e la contemporaneità dal punto di vista dei più deboli, con vicinanza attiva e sentita.

Clicca per saperne di più sull’autrice

https://francescamereu.com/about-chi-sono/

Il suo ultimo libro

https://www.amazon.it/Putin-segreti-delluomo-Pietroburgo-allUcraina/dp/8893235080

Spazio poesia: Cesare Pavese

A cura di Zar@

Quali sono le poesie che si imprimono nella nostra mente come chiodi ben piazzati, a tenere saldati pensieri ed emozioni, affinché non li perdiamo per strada? Quali e quante? La casa di Pavese è una delle mie preferite. La condivido con voi in questa calda mattina d’agosto, come una carezza amichevole.

L’uomo solo ascolta la voce calma
con lo sguardo socchiuso, quasi un respiro
gli alitasse sul volto, un respiro amico
che risale, incredibile, dal tempo andato.

L’uomo solo ascolta la voce antica
che i suoi padri, nei tempi, hanno udito, chiara
e raccolta, una voce che come il verde
degli stagni e dei colli incupisce a sera.

L’uomo solo conosce una voce d’ombra,
carezzante, che sgorga nei toni calmi
di una polla segreta: la beve intento,
occhi chiusi, e non pare che l’abbia accanto.

E’ la voce che un giorno ha fermato il padre
di suo padre, e ciascuno del sangue morto.
Una voce di donna che suona segreta
sulla soglia di casa, al cadere del buio.

Cesare Pavese

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